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di Ottavio Ragone

La Repubblica, 11 settembre 2023

Quante sono le Caivano di Napoli? E quante le Caivano d’Italia? Quante fabbriche di criminalità giovanile troviamo nell’area metropolitana e nel cuore stesso della nostra città, da Scampia a San Pietro a Patierno, dalla Sanità ai Quartieri Spagnoli? Sono tanti i rioni ghetto della cintura urbana in cui la camorra ara facilmente il terreno e cerca di sostituirsi allo Stato, offrendo protezione, denaro, lavoro sporco ma lavoro.

La mentalità criminale, i codici della sopraffazione e della bestialità, la facilità all’uso delle armi, arrivano incontrollati attraverso lo smartphone e i social. Messaggi deviati esplodono nelle menti culturalmente fragili di un esercito di adolescenti e di genitori ancora più impreparati. Dunque non si può cancellare per decreto il problema delle periferie e del disagio giovanile. È un inizio certo, da qualche parte bisognerà pur cominciare. Ma è soltanto il primo tratto di strada. La stretta securitaria e repressiva non è la direzione migliore, se resta quella prevalente. Non risolve la complessità delle questioni, distribuite su più livelli, in campi diversi.

Ogni giorno la rabbia di migliaia di ragazzi, il loro senso di esclusione e discriminazione, trovano alimento nel disastro urbanistico e sociale. Non è questione solo napoletana, la troviamo anche nelle periferie di Milano, Roma e di tante altre città italiane e del mondo, esplode negli anni ‘60-70. Ma qui il problema è molto più forte, urgente, complesso, rispetto al resto del Paese.

C’è una ragione. Solo a Napoli il terremoto del 1980 - e soprattutto il flusso di migliaia di miliardi malamente speso per la ricostruzione - provocarono effetti sociali, economici e urbanistici così devastanti. L’ex sindaco Riccardo Marone ha scritto un articolo illuminante in proposito su questo giornale. La radice del male è lì, nelle tante Caivano sorte intorno a Napoli come una corona di spine.

C’è il Parco Verde, dove il governo Meloni è intervenuto per decreto, nominando un commissario, stanziando trenta milioni, autorizzando l’assunzione di vigili urbani. E ci sono tante altre cattedrali del dolore, il Rione Salicelle di Afragola, la 219 di Melito, Taverna del ferro a San Giovanni a Teduccio, i casermoni squallidi di Barra, il lotto 0 e il Conocal di Ponticelli, la 167 a Secondigliano, il Piano Napoli a Boscoreale. Lì si vive in trappola.

Troviamo scuole e centri sportivi in quegli insediamenti, ma non ci sono neppure ora, a distanza di oltre quarant’anni dal 1980 - gli insegnanti a sufficienza, il personale e i fondi per gestire tante strutture, piscine e palestre che difatti cadono a pezzi. Nelle bombe sociali ai bordi di Napoli e di tanti altri Comuni della provincia vive un’umanità isolata e chiusa in se stessa. Prigioniera di violenti e camorristi. Accadeva prima e succede ancora di più oggi. Alimentando l’emarginazione giovanile: un ragazzo che abita in questi rioni si sente estraneo al resto del mondo. Spesso prova un’ostilità che sconfina nell’odio. Gli altri, i più “fortunati”, diventano bersaglio di scherno e di provocazioni. O di atti criminali.

I trasporti, in questi ghetti urbani, non ci sono o sono pessimi. Mancano negozi, cinema, campi sportivi, spazi per il divertimento che siano ben curati e manutenuti. E queste periferie non vivono solo intorno alla città, ma dentro Napoli stessa, nei quartieri dove storicamente la criminalità affonda le radici. È su questo disastro sociale che nessun governo di destra o di sinistra finora è mai intervenuto davvero. Napoli e il Sud non possono farcela, se non dentro una rete istituzionale forte, con risorse certe, nel quadro di politiche nazionali. I problemi sono enormi, come i fondi necessari. La crisi dell’economia ha impoverito il Sud e gli effetti, in queste zone già povere e discriminate, sono devastanti. Senza prospettive concrete di lavoro, ogni discorso sarà inutile.

Ecco perché nessuno può tirarsi indietro. Qui come a Roma, ognuno ha il dovere di esercitare nel miglior modo il proprio ruolo, che sia un sindaco o un capo del governo. Ma è sotto gli occhi di tutti la malattia mai risolta del nostro Mezzogiorno, che trova nella ex capitale il suo punto di crisi. Finché avremo ministri che blaterano di autonomia regionale differenziata, senza una visione complessa del Paese e una risposta politica unitaria e solidale, soprattutto sul piano dello sviluppo economico, fin dove può arrivare un semplice decreto?

Dunque nelle tante Caivano di Napoli, e in quelle di Milano e Roma e Palermo, bisogna avere asili nido e scuole a tempo pieno, dove i ragazzi entrano alle 8, vengono seguiti, si divertono facendo sport in strutture che funzionano davvero, ed escono quando ormai la giornata è alle spalle. E servono insegnanti, tanti, pagati adeguatamente rispetto allo sforzo che fanno in condizioni di tale disagio. E assistenti sociali per aiutare le famiglie in difficoltà: è vergognoso che a Caivano ce ne siano solo tre. E poi trasporti, pulizia delle strade, parchi ben curati, centri di formazione professionale e politiche serie di avviamento al lavoro. Un lavoro di lunga lena, richiederà anni. Ma bisognerà cominciare, senza mai mollare. Finché le nostre Caivano diventeranno, finalmente, Italia.