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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 28 novembre 2023

Il ministro Crosetto e il governo sanno molto bene che la magistratura è “pronta a tutto” pur di fermare l’aspirazione riformista di Meloni e Nordio. Il ministro Guido Crosetto lancia l’allarme sull’ “opposizione giudiziaria”, che con inchieste mirate sulla maggioranza, potrebbe avvelenare le elezioni europee. Ma non è il centrodestra il nemico delle toghe militanti, è la politica delle riforme. E in particolare la separazione delle carriere. È quella la loro bestia nera. Giorgia Meloni l’ha capito e ha trasformato la separazione in Cenerentola. E il ministro- magistrato Alfredo Mantovano lo sa bene.

Certo, c’è stato nel 1994 il “decreto Biondi” e la protesta del pool di Milano che ha di fatto affossato il primo governo Berlusconi. È c’è stata una sfilza di ministri della giustizia, da Martelli a Conso a Flick fino a Mastella impallinati dopo interventi della magistratura. Ma quello che davvero disturba le toghe, o almeno la gran parte di loro, non sono le singole persone o i singoli governi, ma le riforme costituzionali. La storia di questi spezzoni di toghe che esondano, tracimano, si espandono dove non dovrebbero, non è vicenda di magistrati di sinistra contro i governi di centrodestra, come ha detto il ministro Crosetto. Anche se è sotto gli occhi di tutti il fatto di quanto tutta la vita politica di Silvio Berlusconi sia stata costellata dall’intervento di pubblici ministeri. Ma, con tutto il rispetto e il dolore di una perdita, il punto centrale non è quello.

Mi permetto, e me ne scuso, un’autocitazione. Era il 16 settembre 2022, quando ancora non si sapeva chi avrebbe vinto le elezioni della successiva domenica 25. Ecco il testo di un mio articolo: “Se il prossimo Parlamento e la maggioranza che governerà il Paese dopo le elezioni pensano a una riforma costituzionale, specie se radicale come l’introduzione del presidenzialismo, facciano attenzione al partito dei pubblici ministeri”. Ora le grandi modifiche alla Carta che sono attualmente sul tavolo delle riforme sono tre, e tutte impegnative, la riforma dell’organizzazione dello Stato con l’introduzione del premierato, l’autonomia differenziata e la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Quando il ministro riferisce di discorsi sulla necessità di “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”, parole che sarebbero la sostanza e la premessa di interventi concreti da “opposizione giudiziaria” di una parte della magistratura, che cosa teme? Inchieste giudiziarie, magari su esponenti politici di primo piano della maggioranza, in grado di avvelenare il clima delle prossime elezioni europee, sicuramente. Ma perché non anche la speranza di una battuta d’arresto sulle riforme, in particolare quella sula separazione delle carriere?

La storia è ricca di questi interventi. E di riforme nate e seppellite. Basta la memoria delle Commissioni Bicamerali. Non Tanto la prima, quella del 1983 presieduta dal liberale Aldo Bozzi. Ma a partire dalla seconda, guidata dal democristiano Ciriaco De Mita nell’infausto anno 1992. Infausto anche per chi la presiedette. Quel che successe davvero in quei giorni lo racconterà lui stesso, ma solo quattro anni dopo. Quel che si seppe da subito fu l’arresto del fratello Michele De Mita, all’interno di un’inchiesta sulla ricostruzione dell’Irpinia.

Con immediate dimissioni di Ciriaco, tiepida difesa da parte di tutti i partiti, che comunque le respinsero all’unanimità, sia pure in una riunione in cui erano assenti tutti i principali leaders, da Occhetto a Craxi. L’intoppo pareva comunque superato, quando all’improvviso, verso le otto di sera, De Mita telefonava al vicepresidente della Bicamerale Augusto Barbera, annunciando che le sue dimissioni erano “irrevocabili”. Che cosa fosse successo in quelle ore lo abbiamo saputo quattro anni dopo, dalla bocca del diretto protagonista e vittima. Era successo che De Mita aveva ricevuto un fax firmato da tutti i componenti del pool di Milano che diffidavano dal procedere con la separazione delle carriere. Norma che infatti sparì, insieme al presidente della Bicamerale. Ricapitolando. Fase uno, arresto del fratello. Fase due, dimissioni poi respinte. Fase tre, dimissioni irrevocabili e affossamento della riforma sulla separazione delle carriere.

La terza Bicamerale nel 1997 è presieduta da Massimo D’Alema. Si discute la “bozza Boato” che prevede una radicale riforma della giustizia e di nuovo la separazione delle carriere. Il 22 febbraio del 1998 il pm del pool di Milano Gherardo Colombo rilascia un’intervista al Corriere della sera in cui denuncia: “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. È abbastanza chiaro chi sarebbero i ricattatori e chi le vittime, lo si capisce da frasi del tipo “noi abbiamo appena inciso la superficie della crosta”. Tutta l’intervista ricostruisce la storia d’Italia come storia criminale, ed è chiaro l’invito a quella parte politica che non è stata toccata da tangentopoli e Mani Pulite, il Pci- Pds- Ds- Pd, a non considerare del tutto archiviate le inchieste.

La terza Bicamerale finì quel giorno, con il sacrificio del ministro Flick che voleva il procedimento disciplinare per Colombo e finì invece dimissionario lui stesso. E di Bicamerali non se ne videro più. Ma il tema della separazione delle carriere, l’unica riforma che potrebbe por fine alla “repubblica giudiziaria”, a quell’opposizione politica delle toghe di cui ha riferito il ministro Crosetto, è ancora sul piatto, anche se nella posizione di Cenerentola rispetto alle altre due. Ma evidentemente non basta. È chiara la lezione, signor ministro?