sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Jennifer Guerra

Corriere della Sera, 21 febbraio 2024

Dialogo tra una femminista storica e una giovane filosofa su corpi e libertà. “Difficile proporre questa prospettiva alle donne emancipate, che vogliono allontanare da sé certi fantasmi”, dice la saggista. Quando ci parliamo, Lea Melandri è appena tornata da Londra, dove è stata accolta “come un rockstar”, a sentire chi l’ha accompagnata e ascoltata all’Istituto di cultura italiana. Tra le più importanti esponenti del femminismo storico italiano, archivio di “memoria vivente”, come si definisce, Melandri è stata invitata oltremanica per parlare della sua esperienza dei corsi delle 150 ore nei quartieri popolari di Milano negli Anni 70, che da formazione per ottenere la licenza media pensata per gli operai, si trasformarono in laboratori femministi per casalinghe. Oggi Lea ha 82 anni, ha vissuto mille vite e sta costruendo un ponte con le femministe di nuova generazione.

Bollati Boringheri ha da poco ripubblicato il suo libro “Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà”, un testo del 2011 che provava a scavare fra le radici della violenza che ogni anno uccide centinaia di donne nel nostro Paese. All’epoca c’era Silvio Berlusconi, e il dibattito sull’oggettivazione del corpo femminile era animato dalle donne che avevano fatto la storia del femminismo, ma che non erano riuscite a comunicare le loro istanze alle più giovani. Nel 2024 il tema è ancora quello del femminicidio e oggi le parole di Melandri sono raccolte da una nuova classe di femministe che il 25 novembre ha occupato le strade di Roma con mezzo milione di persone. Un evento di cui anche Melandri riconosce l’importanza, dedicando la prefazione del libro alla mobilitazione nata dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin.

Quando sui giornali si attribuisce un femminicidio al fatto che lui “l’amava troppo”, giustamente, ci si indigna. Eppure tu scrivi, nella nuova prefazione al libro, che “non si uccide per amore, ma l’amore c’entra”. Anche chi lavora nei centri antiviolenza lo dice sempre: l’amore che molte donne provano per i propri aguzzini è un fattore che non si può ignorare. Perché secondo te facciamo così fatica a riconoscere questo legame?

“Io non ho mai avuto dubbi che l’amore c’entri qualcosa con la violenza, anche per la mia esperienza personale. Il dominio degli uomini sulle donne è particolare, perché attraversa, anzi, si confonde con le esperienze più intime: il corpo da cui dipende la vita degli uomini è anche il corpo che incontrano nell’amore. Il fatto di aver confinato la donna nel ruolo di madre fa sì che anche nella vita amorosa adulta si prolunghi l’amore nella sua forma originaria, che è quella della dipendenza. È difficile proporre questo tema alle donne emancipate, che forse vogliono allontanare da sé questi fantasmi, mentre io l’ho sempre visto in azione fra la gente comune. Penso a mia mamma contadina, che nonostante le violenze di mio padre non l’ha mai denunciato e gli è stata vicina fino alla morte”.

Il femminismo ti ha aiutata a capire perché?

“Sì, ma tardi. Io ci ho messo trent’anni prima di parlare di ciò che ho vissuto in famiglia. Ma il femminismo stesso è arrivato in ritardo e per tanti anni si è occupato della violenza manifesta, ma non di quella invisibile. Credo che questa lentezza sia dovuta proprio al fatto che l’amore ha fatto da velo, impedendo di aprire le porte di casa. Come diceva Sibilla Aleramo, il sogno d’amore, l’idea di fusione totale con il proprio amato, è “sacrilego” e le donne l’hanno incorporato. È diventata la normalità”.

Tu mi parli di esperienze concrete, mentre oggi nel femminismo si parla di amore - e di violenza - in maniera molto teorica. Questo allontanamento dalla vita concreta ha contribuito alla convinzione che l’amore non c’entri niente con la violenza?

“Sì, sono d’accordo. Negli anni ‘70 noi femministe ci eravamo concentrate molto sulla sessualità e sulla maternità, ma di amore non si parlava. Io me ne sono interessata verso la fine del decennio, anche grazie al processo di liberazione che il femminismo aveva messo in atto, lasciando scoperto qualcosa di più profondo. Da bambina avevo visto il sesso e la violenza, ma non la tenerezza, l’intimità, qualcosa che nei miei libri ho chiamato più volte “la pretesa d’infanzia”. Questo bisogno d’amore non è mai stato nominato nel femminismo, e ancora oggi è un tabù perché, come dice il sociologo Pierre Bourdieu, noi non sappiamo se questo desiderio di fusione con l’altro nella guerra tra i sessi sia un’oasi di pace o la massima espressione della violenza simbolica”.

Il sogno d’amore corrisponde all’amore romantico che ci viene insegnato nei film, nelle canzoni, nei libri?

“No, è una falsa attribuzione, che è servita ad allontanare l’amore dalla riflessione femminista. Una mia amica femminista mi rimproverò di aver teorizzato la “miseria delle donne”, ma l’amore va sottratto dal sentimentalismo, dal romanticismo. Il sogno d’amore, inteso come ricomposizione di quei poli dell’umano che il patriarcato ha contrapposto - maschile e femminile, ma anche natura e cultura, corpo e pensiero -, è l’impalcatura di tutta la nostra storia, non è qualcosa che riguarda solo le donne. Il femminismo fa fatica ad affrontare questo discorso, perché ci sono aspetti dolorosi che non rientrano nella logica dell’emancipazione: la solitudine, la gelosia, la paura dell’abbandono, il bisogno di essere amate...”.

Infatti l’emancipazione non esclude la violenza. Nei Paesi più paritari i tassi di violenza restano alti e anche in Italia, dove bene o male qualche passo in avanti si è fatto, il numero dei femminicidi non accenna a diminuire, anzi, è aumentato rispetto al totale degli omicidi volontari. L’emancipazione delle donne è un incentivo alla violenza contro di esse?

“Negli anni ‘70 ci eravamo rese conto che l’emancipazione era un problema senza uscita: che si valorizzasse l’uguaglianza o la differenza, continuavamo a mantenere come modello di riferimento il maschile. Anche ottenuti alcuni spazi di parità, ci rendevamo conto che la differenza restava, perché restavano i ruoli che dovevamo ricoprire, soprattutto quelli di cura. Io non penso che l’emancipazione aumenti la violenza, ma ciò che fa comparire la violenza maschile nel suo aspetto più arcaico, cioè il femminicidio, è la libertà che le donne hanno conquistato, la possibilità di decidere, e soprattutto il fatto che ora ne sono capaci. E infatti la maggior parte dei femminicidi avviene a seguito di una separazione, quando le donne smettono di essere corpi a disposizione. Oggi grazie al femminismo si è aperta una breccia in ciò che per millenni è stato considerato normale: che le donne fossero sempre a disposizione degli uomini. Questa non è emancipazione, è qualcosa di più profondo: è libertà”.

Gran parte del libro è dedicata al rapporto tra lo spazio pubblico, la polis che per millenni è stata interdetta alle donne, e la dimensione privata. Anche la violenza di genere fa parte di questo rapporto, attraverso il filtro della legge. Molto spesso le uniche risposte che sappiamo dare alla violenza sono quelle legislative e penali. Da un politico mi aspetto che, di fronte a un femminicidio come quello di Giulia Cecchettin, pensi che la soluzione sia mettere mano al codice penale, ma sempre più spesso sono le femministe ad avanzare appelli del genere. La legge è importante, ma non riusciamo a immaginare risposte alternative?

“L’unico modo per uscire da questo automatismo a mio avviso è riconoscere che la cultura patriarcale è la normalità. Come ho scritto anche nella prefazione di Amore e violenza, in questo senso i discorsi di Elena e di Gino Cecchettin dopo il femminicidio di Giulia sono stati una vera svolta nella nostra coscienza storica. Nella sua lettera al Corriere, Elena ha scritto chiaramente che Filippo Turetta non è un mostro, ma, usando uno slogan di Non Una Di Meno (cosa che secondo me è molto significativa), un “figlio sano del patriarcato”. Nonostante mezzo secolo di cultura femminista, che ha analizzato la violenza in tutti i suoi aspetti, di fronte ai femminicidi il linguaggio non cambiava, si continuava a parlarne come di casi di cronaca nera o di gesti folli di un singolo o frutto di culture arretrate. Ma Elena e Gino hanno rotto qualcosa, perché le parole del femminismo, che prima sentivamo solo nelle piazze, sono uscite da una casa, cioè da quel luogo dove la violenza è rimasta sepolta”.

Sono d’accordo. Senza il discorso di Elena, non ci sarebbero state 500mila persone in piazza il 25 novembre...

“La cosa straordinaria in quella settimana era che sui giornali leggevo le parole che mi erano familiari, che usavo da sempre. Per anni del femminismo si è detto di tutto, ma la sua cultura e le manifestazioni che organizzava restavano sempre in ombra. Invece ora è crollato il muro della normalità, che pensa che la violenza sia una questione privata, che va mantenuta in famiglia. Per una volta una famiglia ce ne ha parlato: una sorella ha parlato alle donne, un padre ha parlato agli uomini.

I femminicidi, però, sono andati avanti...

“Sì, è vero. Ma da questo salto non si torna indietro. Tutto questo mi ricorda quello che è successo agli inizi degli anni ‘70, quando sono comparsi soggetti femminili imprevisti, come disse Carla Lonzi, portando un’idea che non era più soltanto l’emancipazione, ma la liberazione”.

Lo si vede anche dalla reazione che molti uomini hanno avuto, di strenua difesa dei propri interessi o addirittura di negazione del problema: io non c’entro, non tutti gli uomini sono così, il patriarcato non esiste...

“Da questo si vede quanto è profondo il cambiamento e il fatto che non può più riguardare solo le leggi. C’è anche l’educazione, la formazione degli insegnanti, che devono essere pronti ad affrontare questi temi. Nel Sessantotto, quando da docente incontrai il movimento non autoritario della scuola, dicevamo di dover “portare il corpo a scuola”, cioè considerare gli alunni nella loro interezza, corpo e pensiero insieme. Si capovolgeva il rapporto tra vita e cultura. Oggi si parla sempre più di educazione di genere, ma per certi versi le difficoltà sembrano aumentate, il clima culturale non è favorevole. Insieme alla consapevolezza, aumentano gli ostacoli. Più la libertà è profonda, più viene osteggiata, ma i corpi, ormai, quelli sono in scena”.