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di Ada Fiore

Il Riformista, 17 agosto 2023

Quando si parla della detenzione nel sistema carcerario italiano, l’attenzione è quasi sempre concentrata sugli aspetti quantitativi del problema, come il sovraffollamento o la mancanza di personale di vigilanza. Problemi gravissimi sicuramente, ma che da anni riempiono solo le pagine dei giornali in attesa di rispose definitive. Sarebbe al contrario utile provare a ragionare sulla funzione rieducativa che una detenzione dovrebbe prevedere. E che dovrebbe rappresentare l’obiettivo ultimo in ottemperanza dell’articolo 27 della nostra Costituzione. Ma come si intreccia l’articolo 27 con la realtà quotidiana dei detenuti?

A parlare con loro, in carcere si acquisiscono solo tutte quelle competenze utili a ritornarci una volta usciti. “Qui siamo trafficanti, ladri, cosa dovremmo imparare tra di noi?” mi dicono. Perché è vero. Non c’è alternativa a quel maledetto tempo che deve pur scorrere in qualche modo, e parlare con i compagni di cella diventa l’unico modo per sopravvivere a quell’agonia esistenziale. Anche parlare con lo psicologo o con l’educatrice diventa complicato in un contesto in cui le richieste arrivano a centinaia. Le opportunità di crescita educativa e culturale sono molto limitate, spesso legate solo a qualche progettualità attivata da soggetti esterni.

Da qualche anno, però, (un po’ rallentato a causa delle ristrettezze Covid) nel carcere di Borgo san Nicola di Lecce, abbiamo avviato una sperimentazione di Service learning, una modalità didattica con la quale si mette a disposizione di un disagio il proprio sapere. E così, alcuni studenti del liceo Francesca Capece di Maglie sono stati accompagnati a svolgere delle lezioni ai detenuti trasferendo loro contenuti e saperi, ma soprattutto scambiandosi opinioni e punti di vista.

I programmi ministeriali sono stati rielaborati ed esposti in una forma semplice in grado di arrivare a chiunque: lettura di poesie da commentare, pensieri filosofici da analizzare ma anche eventi di storia da cui trarre insegnamenti. L’arricchimento è stato reciproco. I ragazzi hanno vissuto una vera esperienza di cittadinanza attiva utile ai fini del loro percorso del PCTO, (percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) poiché oltre a mettere a frutto i propri studi, hanno imparato a conoscere il sistema carcerario, verificarne i disagi, e soprattutto si sono esercitati ad abbattere ogni forma di pregiudizio nei confronti di chi, pur sbagliando, ha sempre diritto ad una nuova opportunità. E così, in un dialogo alla pari, i detenuti si sono sentiti finalmente persone, chiamate per nome e riconosciute anche per i propri pensieri ed emozioni. Perché in fondo comincia da qui un percorso di rieducazione e reinserimento: dalla sensazione che nonostante i propri errori, c’è qualcuno disposto ad incontrarti e ascoltarti. E farlo con giovani liceali, molto spesso identificati con i propri figli è uno straordinario inizio. Sarebbe utile se queste esperienze fossero estese in tutte le scuole d’Italia anche attraverso un vero Protocollo d’intesa tra il Ministero dell’Istruzione e del Merito e il Ministero di Giustizia.

Perché lo si può fare in tempi rapidi e senza nemmeno grandi risorse. Ma solo con la consapevolezza che, come diceva Hugo, “Chi apre le porte di una scuola, chiude una prigione”. E questa esperienza ne è la testimonianza.