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di Vincenzo Trione

Corriere della Sera, 24 luglio 2023

Sin dalle scuole medie si potrebbero riservare alcune ore di insegnamento a una materia trasversale, capace di disegnare i confini mobili all’interno dei quali ambiti non contigui scoprono finalità e significati comuni. Si fa presto a dire Italia. Ma - occorre chiedersi - in che modo è davvero possibile conoscere il nostro Paese? Vorrei avanzare una proposta. In via sperimentale, sin dalle scuole medie inferiori, si potrebbero riservare alcune ore di insegnamento a una materia trasversale, capace di disegnare i confini mobili all’interno dei quali ambiti non contigui - storia dell’arte, storia, letteratura, filosofia, scienze e religione - pur salvaguardando differenze e tensioni reciproche, si co-appartengono e scoprono finalità e significati comuni: l’educazione al patrimonio culturale. Un campo del sapere inedito, al quale Tomaso Montanari ha recentemente dedicato un appassionato libro, che ha il tono di “un’orazione civile in un piccolo teatro di provincia” e, insieme, di “una preghiera a voce bassa in una chiesa amica” (Se amore guarda, Einaudi).

Si tratta di un’alta forma di educazione civica. Che insegna a misurarsi in maniera rispettosa con la potenza di quella che i latini chiamavano civitas: i monumenti, le architetture, i quadri, le sculture, le iconografie, la storia e le storie che ci attraversano. Ma educa anche a entrare in risonanza con la meraviglia diffusa dell’urbs, la città dell’uomo che è esito del talento di un’infinità di uomini senza nome: borghi, vie, selciati, ruderi, pietre.

È come una lingua viva, che ogni italiano dovrebbe studiare sin da bambino, per “avere coscienza intera della propria nazione” (per riprendere le parole di Roberto Longhi). Siamo dinanzi a una disciplina umanistica non a circuito chiuso, che ha il valore di un autentico baluardo civile. Invita ad adottare una specifica postura fisica e mentale, per interagire con gli spazi che abitiamo e che ci abitano.

Anche grazie all’educazione al patrimonio, i nostri ragazzi potrebbero diventare cittadini responsabili, consapevoli della nostra civiltà millenaria, fino in fondo coscienti dell’identità porosa dell’Italia, che è stata plasmata da figure provenienti da culture, da tradizioni e da geografie lontane. Cogliere l’unicità di quella prodigiosa stratificazione di natura, architettura e arte che è l’Italia. E acquisire i mezzi per difendere (e per curare) il corpo martoriato del nostro Paese, ferito da violenze senza rimorsi e da scempi senza scrupoli, indignandosi per il degrado delle città e dei paesaggi, frutto di un’incultura generalizzata e di un’indifferenza delittuosa.

Ma l’educazione al patrimonio ha soprattutto una valenza spiritualistica, metafisica. In una società governata dal culto dell’intrattenimento, dello svago e del disimpegno, suggerisce un dialogo problematico con i fenomeni. Fondamento della coscienza critica, stimola l’intelligenza creativa; aiuta a elaborare il senso della perdita; collega il reale e l’immaginario. Inoltre, fornisce strumenti per stare diversamente nel mondo; per emanciparsi dalla dittatura dell’hic et nunc; per avviare un conflitto fecondo con il presente; per trascendere le nevrosi, le ansie e le fatiche delle nostre giornate. E ancora: indica sentieri possibili per non aderire allo stato delle cose; per riconquistare il potere degli sguardi lunghi e lenti; per attribuire un senso inatteso al visibile; infine, per rimettere in moto frammenti dove la storia sembra essersi arrestata, ponendo in connessione “questo” tempo con “altri” tempi. “Come in certi quadri del Medioevo e del Rinascimento in cui il sepolcro accoglie un Cristo vivo, così appare ai nostri occhi ciò che chiamiamo patrimonio culturale, il luogo-tempo in cui sono vivi coloro che ci hanno preceduto”, scrive Montanari.

Ecco: l’educazione al patrimonio apre i nostri occhi e il nostro cuore a una dimensione ulteriore. E fa sfiorare, quasi con amore, la sacralità immanente e concreta nascosta nei dipinti che osserviamo, nei monumenti che ammiriamo, nelle strade che percorriamo, nelle pietre che calpestiamo. In fondo, è un modo per non smettere di interrogare la bellezza intenzionale e inintenzionale che ci circonda. Fino a entrare in contatto con quella che un grande scrittore russo, Vasilij Grossman, ha chiamato la “forza dell’umano nell’umano”.