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di Errico Novi

Il Dubbio, 11 gennaio 2024

C’è tutto un fronte scosso dall’avanzata garantista. Ne fa parte la magistratura e vi si associa il grosso dell’opposizione. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, per esempio, ieri ha di nuovo bollato come “inaccettabile” un diritto penale indifferente a pubblici funzionari prevaricatori. Pd, 5 Stelle e Verdi-sinistra continuano a produrre raffiche di dichiarazioni indignate. Ma c’è poco da fare. È scattato qualcosa.

Nel centrodestra e nella politica giudiziaria del governo. È un moto che travolge non solo l’abuso d’ufficio, sulla cui abolizione, due giorni fa, è arrivato un potente via libera dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama. L’onda non si limita al reato che causa più di tutti la paura della firma. È una rivolta che in realtà guarda a un nodo più sostanziale: alla presunzione d’innocenza. E in particolare alla presunzione d’innocenza dei politici.

Fin qui ritenuti impresentabili al solo sospirar di un’intercettazione che, pur in assenza di accertamenti penali degni di tal nome, decretava la disgrazia del sindaco o dell’assessore in questione. Figurarsi con le condanne. Ecco: proprio sul nesso tra condanne non definitive e abrasione delle carriere politiche interviene l’altro, clamoroso segnale di rivolta lanciato due sere fa dal Senato: il sì all’ordine del giorno leghista, a prima firma Erika Stefani, che punta a sopprimere la legge Severino. In particolare, si impegna il governo a cestinare la norma che prevede la sospensione per 18 mesi dei pubblici amministratori condannati anche solo in primo grado.

Allo stesso tempo, l’impegno promosso dal Carroccio e accolto dal guardasigilli Carlo Nordio prevede di metter mano pure all’ingranaggio delle incandidabilità, regolato sempre dalla “riforma” del 2012. Ed è chiaro che in gioco c’è appunto la presunzione d’innocenza: dopo trent’anni di asservimento alla dittatura morale dei pm, la politica, con un urlo liberatorio che si spera più duraturo del boato fantozziano contro la Corazzata Potemkin, dice basta alla logica delle sentenze di primo e secondo grado che stroncano o azzoppano governatori, sindaci, assessori e consiglieri, regionali o comunali che siano.

Crolla, finalmente, il venefico principio per cui anche se la condanna non è definitiva dovrebbero prevalere “ragioni di opportunità”. E se poi è innocente? Vorrà dire, nella logica dei pm, che quel sindaco è un “cadavere necessario”, come avrebbero detto i due comici agenti dei servizi segreti di un sottovalutato film del 2007, “Notturno bus”.

Peccato, certo, che ci sia voluto l’urlo esausto e liberatorio levatosi fin troppo tardivamente in Senato, in particolare dal centrodestra meloniano e da Italia viva, associatasi alla maggioranza nelle votazioni dell’altro ieri (l’esame agli emendamenti al ddl Nordio riprenderà oggi). Peccato che dalla pestifera legge Severino (trattasi per la precisione di un decreto legislativo previsto da una precedente delega, il 235 del 31 dicembre 2012) siano dovuti trascorrere la bellezza di 12 anni. Perché nel frattempo di carriere politiche ingiustamente stroncate se ne sono censite a decine.

Un altro alfiere delle battaglie garantiste, e dell’autonomia del potere politico dal ricatto giudiziario, il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, aveva depositato nei mesi scorsi un dossier alla Camera per sostenere l’urgenza di una soppressione (o quanto meno della depenalizzazione) dell’abuso d’ufficio: in quel libro bianco si contavano oltre 150 casi di amministratori colpiti dalla disciplina del 2012 e assolti, spesso, quando il mandato politico era ormai irrecuperabile.

Ecco, l’addio all’abuso d’ufficio e l’impegno a superare la Severino (che persino la stessa autrice ed ex guardasigilli ritene urgente sopprimere) sono strettamente connessi: nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, le sospensioni imposte dalla norma del governo Monti sono correlate proprio a condanne non definitive per abuso d’ufficio. Se dunque davvero il governo, come previsto dall’odg leghista, proporrà un ddl per cancellare la “riforma” di 12 ani fa, saremo di fronte a un colpo di rasoio a doppia lama: via le sospensioni che calpestano la presunzione d’innocenza, ma prima ancora c’è l’addio al reato che ha condotto il più delle volte a quelle sospensioni.

Avrebbe potuto rimediare a tutto la Corte costituzionale già nel 2015, quando invece, con la sentenza 236 di quell’anno, ritenne infondata la questione di legittimità sollevata, sulla legge Severino, nell’ambito della vicenda giudiziaria di Luigi de Magistris. L’allora sindaco di Napoli non fu costretto, dalla decisione della Consulta, a lasciare Palazzo San Giacomo solo perché, nelle more del giudizio costituzionale, la Corte d’appello l’aveva intanto assolto dal reato di abuso d’ufficio (of course), per il quale era stato condannato in primo grado. Ma lui, de Magistris, è appunto un fortunato: come documentato da Costa, c’è una sfilza di “cadaveri” evidentemente ritenuti “necessari” dai fan della legge Severino (sempre citare il film “Notturno bus”). Cioè di amministratori che, sospesi e poi assolti, non hanno potuto riavere la carica.

Si possono citare l’ex primo cittadino di Agrigento Marco Zambuto, dimessosi prima ancora che la Severino lo costringesse ad andar via, assolto in appello ma mai più tornato a guidare la città siciliana. Ma forse, certe riabilitazioni tardive suscitano ancor più sconcerto: due consiglieri regionali, il siciliano Francesco Cascio e il campano Alberico Gambino, sono sì rientrati nelle rispettive assemblee, ma il primo a 4 giorni dalla fine della legislatura e il secondo per appena 5 mesi dopo essersene persi 57.

La cecità della Severino ha generato casi pazzeschi. Basti pensare al sindaco di Avezzano Giovanni Di Pangrazio, assolto in appello dopo un anno e mezzo di sospensione: la condanna di primo grado era arrivata per un peculato da 150, leggasi centocinquanta, euro. C’è sempre un gusto agrodolce, in questo genere di storie a lieto fine: chiedere, per credere, al primo cittadino di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà, del Pd. Il suo caso, oltre a essere il più recente, è anche il più severo paradigma della presunzione d’innocenza negata ai politici: c’è voluta la Cassazione per correggere le condanne in primo e secondo grado e consentirgli, lo scorso 25 ottobre, di riassumere la carica dopo quasi due anni.

Se la Costituzione dice che non si è colpevoli fino al terzo grado di giudizio, è anche per evitare che siano i magistrati a decidere le sorti della politica. Una soggezione durata trent’anni e di cui l’altro ieri, finalmente, la politica ha deciso di sbarazzarsi.