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di Alessandro Parrotta*

Il Dubbio, 26 agosto 2022

Secondo la Corte, la disciplina va adeguata agli articoli 3 e 27 della Carta e alle sentenze Cedu, per le quali è inumano e degradante un trattamento basato sulla reclusione a vita. L’attività parlamentare è nuovamente in una fase di stallo. Si attendono dunque le prossime elezioni di settembre e con loro anche tutte le riforme lasciate in sospeso.

Tra queste vi è anche l’auspicato intervento del Legislatore sugli artt. 4- bis comma 1 e 58 ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 d. l. n. 152 del 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 203 del 1991 4 bis o. p. “nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416- bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale”.

Con l’ordinanza n. 97 del 2021, infatti, la Corte ha affermato come tale disciplina necessiti una modifica, per adeguarla ai principi ex artt. 3 e 27 Cost., sulla scorta di una profusa Giurisprudenza della Corte EDU, la quale ritiene inumano e degradante un trattamento fondato sulla reclusione a vita nell’assenza di qualunque possibilità per il condannato di lasciare il carcere, una volta conseguito l’obiettivo della rieducazione (tra le molte la sentenza Vinter).

La ratio, in sintesi, sposata dagli Ermellini, è quella secondo la quale un condannato per reati di natura mafiosa - che non abbia collaborato con la giustizia possa comunque aver intrapreso proficuamente, soprattutto a distanza di anni, un percorso rieducativo e risocializzante e, pertanto, dovrebbe godere del diritto di accedere a tutte quelle misure premiali che attualmente la normativa non concede per via di una sorta di presunzione assoluta: se non hai collaborato, allora non hai mai reciso i legami con i gruppi organizzati.

Ogni caso andrà dunque accertato nel concreto, in maniera mirata, non potendo presumersi in via assoluta e in eterno che un reo non sia meritevole delle misure alternative alla detenzione, nonché dei permessi premio.

Ad ogni modo, la Corte costituzionale ha rinviato due volte la decisione sulla questione, dapprima a maggio 2022 e successivamente all’udienza dell’8 novembre 2022 in particolar modo per consentire all’Organo legislativo di legiferare in merito. La materia è delicata e un intervento parlamentare, chirurgico, si rende indubbiamente necessario, come peraltro già annotato - a più riprese - da chi scrive su queste pagine.

Anche il Senatore di LeU ed ex Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, in un suo recente intervento sul tema, evidenziava la necessità e l’urgenza di una iniziativa parlamentare, sì da adattare l’attuale normativa con le risultanze degli Ermellini, ma senza dimenticare le stragi di mafia che hanno macchiato la storia repubblicana recente.

E dunque, ci si chiede a questo punto come interverrà la Corte costituzionale a novembre, atteso che il Parlamento molto probabilmente non avrà modo di legiferare sul punto. Per rispondere alla domanda è dapprima necessario riprendere la già citata ordinanza n. 97 del 2021. La Corte, in quella sede, pur rilevando rilevando l’incostituzionalità dell’art. 4 bis o. p., non procedeva con una declaratoria di incostituzionalità per due ordini di ragioni.

In primis in quanto, hanno affermato gli Ermellini, “un accoglimento immediato delle questioni proposte, in definitiva, comporterebbe effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame”. Si è dunque evitato che si andasse a creare un vuoto normativo causato dalla declaratoria di incostituzionalità, il cui effetto avrebbe creato un vuoto normativo (c. d. horror vacui).

In secondo luogo la Corte ha preferito, come giusto, lasciare spazio al Parlamento per fare ciò che gli compete, senza ingerenze, anche considerando che un intervento dell’Organo legislativo ha la possibilità di operare in maniera molto più precisa, salvaguardando tutti gli interessi in gioco: efficacia della normativa nella lotta alle mafie e diritti dei condannati.

Attesi i due passati rinvii ci si chiede se la Corte possa nuovamente rinviare la decisione su una questione tanto delicata, pur consapevole che ciò prolungherà di fatto la detenzione dei c. d. “ostativi” ai sensi di una normativa non conforme ai principi della Carta costituzionale ex artt. 3 e 27. Dal punto di vista meramente procedimentale si consideri che la Corte costituzionale adotta talvolta questo genere di decisioni definite in dottrina di “incostituzionalità accertata ma non dichiarata”, proprio per le suesposte ragioni. Infatti, nel “gioco” di contemperamento degli interessi costituzionali, gli Ermellini spesso adottano una simile strada proprio per consentire al Legislatore di adeguare la normativa ai principi costituzionali, senza che un intervento di rescissione netta della parte incriminata della norma generi effetti potenzialmente più dannosi della rilevata incostituzionalità stessa.

Certo è, in ogni caso, che un’eventuale ulteriore protrarsi attesa del Legislatore porterà necessariamente a una futura declaratoria di incostituzionalità. Il dubbio permane solo sul quando.

Pertanto, volendo effettuare previsioni, chi scrive ritiene assai probabile che gli Ermellini si vedranno costretti a rimandare ulteriormente la trattazione della questione, auspicando che il Parlamento decida quanto prima, non potendosi accettare che una questione tanto delicata venga regolata dalla violenta scure della declaratoria di incostituzionalità.

*Avvocato, Direttore Ispeg