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di Patrizia Maciocchi

Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2023

Non è un reato, ma rientra nella legittima difesa, la ribellione del detenuto che ferisce tre agenti carcerari per ribellarsi al pestaggio. E non importa se la “punizione” da parte degli agenti di custodia era scattata per un’offesa subìta proprio da una guardia. La Cassazione respinge il ricorso dei tre agenti contro la sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva assolto il detenuto dal reato di lesioni, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Il ricorso dei tre, intervenuti nel processo nella doppia veste di imputati e parti civili, era teso anche, e soprattutto, ad ottenere dai giudici di legittimità un’assoluzione nel merito dai reati loro contestati ma dichiarati prescritti già in primo grado: concorso in abuso di mezzi di correzione, abuso di autorità e lesioni aggravate. I ricorrenti ritenevano di aver diritto ad un’assoluzione piena, perché lo “scontro” con il detenuto, era avvenuto mentre stavano “compiendo un atto del proprio ufficio, vale a dire la contestazione disciplinare a (omissis) per le frasi irrispettose pronunciate, quando sarebbero stati aggrediti dal detenuto ed avrebbero, quindi reagito, per legittima difesa e riportare l’ordine”.

L’offesa e la violenta ritorsione - Questa la versione dei ricorrenti che contestavano la credibilità data invece dai giudici al racconto del carcerato, a loro avviso resa inverosimile anche dalla gravità delle lesioni che avevano riportato. Anche per la Suprema corte è però preferibile la narrazione del detenuto. E questo sulla base dei dati emersi nel processo, oltre che per chiare ragioni logiche. Il detenuto aveva ammesso l’offesa all’agente, per la quale si era subito scusato temendo conseguenze disciplinari. Conseguenze che erano state invece ben più pesanti. L’insulto, avevano scritto i giudici di merito, aveva scatenato una terribile punizione fisica “inflittagli in una stanza appartata, in cui era stato denudato e aggredito dagli imputati; la sua istintiva difesa, poi, aveva causato anche un accanimento del pestaggio nei suoi confronti”.

Le testimonianze e i referti medici - A descrivere le pietose condizioni in cui si trovava la vittima “la faccia come un pallone e maschera di sangue” era stata la psicologa, che si era coperta il volto nel vederlo, e aveva chiesto di metterlo in isolamento temendo per la sua incolumità, anche a causa dello stato confusionale. C’era poi la testimonianza del compagno di cella. Per finire, c’erano le certificazioni mediche della casa circondariale in cui il detenuto era stato trasferito - dal carcere in cui si trovava - una settimana dopo i fatti, dalle quali risultavano “lesioni talmente gravi e diffuse su tutto il corpo, dalla regione facciale all’emitorace sinistro, agli arti, con emorragie agli occhi, da riscontrare perfettamente le dichiarazioni del detenuto circa il vero e proprio pestaggio subìto”. Quanto alle ferite provocate agli agenti queste si spiegano con “la potenza fisica della vittima abusata, che proprio perché peculiare, è riuscita a ribellarsi al pestaggio ritorsivo, provocando a sua volta lesioni ai tre agenti aggressori”.

Il concorso dei reati contestati agli agenti - Su queste basi la Cassazione esclude la possibilità di assolvere nel merito i ricorrenti che avevano già beneficiato della prescrizione che aveva impedito, già dal primo grado, di procedere nei loro confronti. La Suprema corte conferma l’impianto accusatorio sia per l’abuso di autorità, che scatta a causa “delle condotte vessatorie perpetrate da agenti di polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti, le quali aggravino le condizioni della carcerazione, sottoponendoli a misure di rigore non consentite dalla legge e vessazioni, di guisa che la sfera di libertà personale del soggetto passivo subisca un’ulteriore restrizione, oltre quella legale, che è insita nella detenzione stessa”. Il reato di lesioni concorre poi con l’abuso di autorità quando “gli atti di violenza fisica incidano sulla sfera di libertà personale del soggetto passivo determinandone una limitazione aggiuntiva rispetto a quella consentita”. Un quadro nel quale rientra la descrizione del fatto, con le “misure di rigore” messe in atto in una cella di isolamento con calci e pugni in varie parti del corpo. La ricostruzione porta i giudici ad escludere “qualsiasi possibilità di rilevare cause di proscioglimento”. Non c’è dubbio, per la Cassazione, che la violenza subìta abbia aggravato “le condizioni di restrizioni già connaturate allo stato detentivo, obbligando la vittima a subire una quota maggiore di coercizione della propria libertà”.

Il no all’archiviazione del caso Lombardo - Di oggi anche la notizia che la Cassazione ha accolto il ricorso contro l’archiviazione del caso Enrico Lombardo, il 42enne morto nel 2019 durante un fermo nel Messinese. La Suprema Corte ha disposto che gli atti tornino al tribunale di Messina dove il giudice monocratico dovrà fissare un’udienza nella quale si discuterà della seconda richiesta di archiviazione e verrà presa una decisione in merito. La famiglia dell’uomo, tramite l’avvocato Pietro Pollicino, aveva fatto ricorso contro l’archiviazione del caso e venerdì scorso, in piazza Cavour, a Roma, mentre i giudici della quinta sezione penale discutevano del caso, si è tenuto un sit-in al quale hanno partecipato, tra l’altro, le associazioni A Buon Diritto e Amnesty International. Il 42enne Enrico Lombardo viveva a Spadafora, frazione di 5mila abitanti vicino a Messina ed è morto nella notte tra il 26 e il 27 ottobre del 2019, durante un fermo dei carabinieri.