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di Federica Angeli

La Repubblica, 11 agosto 2022

Il dramma dei 54mila detenuti e l’indifferenza dello Stato. Intervista a Nicola Boscoletto della Cooperativa Giotto di Padova.

Il magistrato di sorveglianza Vincenzo Semeraro, sulla morte di Donatella Hodo ha detto che il carcere, così com’è, sia pensato per gli uomini e non per le donne. Secondo lei è così?

“Io penso che il carcere non sia a misura di uomo, come essere umano, come uomo e come donna. Per nessun essere umano così come è oggi, frutto di decenni di abbandono in cui la persona non è più al centro del principio costituzionale, enunciato e non percepito, scritto ma non rispettato. Il carcere oggi ha perso la sua missione che è quella di rieducare, riabilitare, il vecchio motto degli Agenti di Custodia, siamo negli anni successivi alla scrittura della Costituzione, era “Vigilando Redimere” dove la parola vigilare non era legata a problemi di sicurezza, ma come un papà e una mamma custodiscono, sorvegliano, vigilano sui propri figli, così era per le persone che avevano bisogno di essere riportate verso la retta via. La dignità dell’uomo era al centro, la maggioranza di chi ci lavorava ci credeva”.

Quanto alle donne detenute?

“Hanno modalità di risposte e problematiche personali e affettive differenti, tutti hanno un problema affettivo partiamo dalla base. Il carcere femminile è curato in maniera diversa dal maschile, in alcuni casi, ma dipende sempre da chi è il direttore, anche meglio, in molti casi ci sono sezioni femminili inserite in carceri maschili. Ma oggi questo non è il tema centrale. C’è uno scollamento tra la realtà del carcere e chi parla del carcere, e non escludo nessuno, dal ministro al capo del dipartimento, dai professori agli specialisti...sembra che la soluzione del problema sia in mano agli esperti, ma invece non è così, perché è un’altra cosa. Per rispondere alle vere necessità bisogna conoscerle fino in fondo e le conosci se le ami. Se non ami il tuo lavoro e lo scopo per cui esiste come puoi capire i problemi e pensare alle soluzioni necessarie? Ecco che se noi vogliamo veramente bene a Donatella non dobbiamo correre veloci su questa tragedia. Il dolore sincero del magistrato di sorveglianza Vincenzo Semeraro è un punto da cui poter ripartire, è la cosa più importante di questi ultimi 20 anni. Il carcere oggi non ha bisogno prima di tutto di risposte, anche perché per chi conosce veramente questo mondo sa che ci sono, ma ha bisogno di domande, di persone che si facciano delle domande vere e profonde, solo da qui si potrà ripartire”.

Ha dati sulle persone che dovrebbero stare in comunità e invece sono in carcere?

“I dati ci dicono che siamo fuori scala se paragonata al mondo esterno. Partiamo dai suicidi, in Italia (dati ufficiali Oms) si suicidano in media 6,7 persone anno ogni 100.000 abitanti. Al 10 di agosto, da quello che ci è dato di sapere, su 54.000 persone detenute 49 si sono tolte la vita, fate voi i conti, a fine anno arriveremo a circa 20 volte la media esterna. Su 54mila, almeno un terzo dovrebbe essere in comunità a vario titolo, ma nessuno ha investito sulle comunità di accoglienza e recupero, è una filiera, ma se non ci si investe diventa teorico dire li metto fuori. Fanno commissioni per applicare cose nuove ma non applicano quello che è previsto da decenni dall’ordinamento e dal regolamento. Oggi la cosa più importante su cui stare difronte ed interrogarci è questo gesto da gigante che il magistrato di sorveglianza ha fatto chiedendo scusa, soprattutto perché lo ha fatto col cuore. Oggi il carcere, ripeto, può ripartire solo se si prende consapevolezza di questo. Siamo difronte ad un fallimento, finché dai vertici e da tutte le posizioni di responsabilità non aumentano le persone che prendono consapevolezza del fallimento e cominciano a fare un sincero mea culpa, non se ne esce. Si riparte sempre dal riconoscimento di un errore e da qualcosa di positivo”.

In base a quali parametri si stabilisce che un detenuto debba stare in carcere o in una comunità di recupero?

“Bella domanda. Il problema non sono i parametri, che ci sono, ma l’applicazione. Sotto i quattro anni si potrebbe accedere, addirittura credo che per le persone con dipendenza l’invio in comunità possa avvenire sotto i sei anni. Sa quante sono oggi le persone detenute che si trovano in carcere con una pena inflitta di 1 anno? 1344. E sa quante sono quelle con una pena residua da scontare di 1 anno? 7.067. Purtroppo, ci sono persone che hanno dipendenze importanti o che hanno problemi psichiatrici, e restano lì. Il carcere è diventato una discarica indifferenziata, mandi qualsiasi roba in questa discarica umana, è da vergognarsi. Non si differenziano le problematiche delle persone e le relative soluzioni e questo nuoce prima di tutto alla società civile perché il risultato di questo porta a incrementare la insicurezza. La recidiva reale è al 90%: chi esce delinque meglio di prima. In termini di costi indiretti (i soli costi diretti sono 4 miliardi) non sappiamo quanti miliardi si spendono, cifre astronomiche. Poi ci sono le persone extracomunitarie che vengono buttate dentro a questo sistema. È un mostro incredibile quello che abbiamo generato. Il problema non è liberi tutti ma trattare adeguatamente tutti, non c’è buonismo né pietismo, chi sbaglia deve pagare, ma lui, non la società, tutta questa modalità torna come costi e come sicurezza contro la società”.

Da dove si può ricominciare per recuperare anni di fallimento?

“L’amministrazione penitenziaria considera una ruota di scorta il terzo settore (alla faccia del principio costituzionale della Sussidiarietà e la riforma del Terzo Settore): se oggi tutte le associazioni, i volontari, le cooperative sociali non entrassero in carcere, non ci sarebbe più nulla, oltre l’80% delle attività viene svolto dal Terzo Settore. Invece di lavorare veramente assieme siamo visti prevalentemente come degli intrusi rompipalle, una presenza ancillare da tenere distante, diamo fastidio semplicemente perché richiamiamo al senso per cui tutti ci troviamo ad operare con le persone detenute. Criticare non vuole dire ledere maestà. Il carcere è la faccia peggiore della società e se la società va male il carcere è il peggio del peggio, i detenuti sono un numero di fascicolo. Per ricominciare basterebbe quindi partire da ciò che di positivo c’è ovunque comprese le realtà del terzo settore che in questi decenni hanno supplito alla carenza dello Stato, che invece di togliere gli ostacoli crea casino. Il sistema sta mantenendo sé stesso, questa è la verità”.