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di Luca Kocci

Il Manifesto, 12 settembre 2023

Lo ricorda il volume di Augusto Cavadi e Cosimo Scordato che sarà presentato oggi alle 18 alla Chiesa di San Giovanni Decollato a Palermo. Il prete anti-mafia del quartiere Brancaccio, poi nominato beato, fu ucciso nel 1993. Sono trascorsi trent’anni da quando, il 15 settembre 1993, i killer di Cosa nostra agli ordini dei fratelli Graviano uccisero don Pino Puglisi, il parroco palermitano che annunciava il Vangelo dal pulpito della sua chiesa e per le strade del suo quartiere, lavorando perché Brancaccio diventasse più vivibile - le lotte insieme ai cittadini per la scuola, i servizi sociosanitari, le fognature - e i suoi abitanti potessero liberarsi dal dominio mafioso.

E sono passati dieci anni da quando la Chiesa cattolica lo ha proclamato beato, martire “in odio alla fede”, come si legge nel decreto vaticano firmato da papa Ratzinger. Ma perché un’organizzazione che tradizionalmente non ha mai guardato la Chiesa come un nemico decide di eliminare un prete? È sufficiente essere assassinati dalla mafia per essere dichiarati beati dalla Chiesa cattolica che, nella sua lunga storia, ha avuto un atteggiamento perlomeno ambiguo nei confronti di Cosa nostra?

Sono le domande di un filosofo laico, Augusto Cavadi, e un prete teologo cattolico, Cosimo Scordato - da sempre impegnati nel movimento antimafia siciliano -, in un libro che, lontano dall’apologia di chi vorrebbe ridurre Puglisi a un santino, riflette sul senso di un omicidio anomalo e di una beatificazione controversa, provando a ragionare su cosa Puglisi può dire ancora oggi alla società e alla Chiesa (“Padre Pino Puglisi. Un leone che ruggisce di disperazione”, Il pozzo di Giacobbe, pp. 202, euro 18).

Puglisi è stato ucciso da una Cosa nostra ancora stragista perché nella prassi pastorale quotidiana viveva e trasmetteva un Vangelo di liberazione che contrastava ogni forma di oppressione dell’uomo sugli altri esseri umani, costruendo un’alternativa concreta al sistema mafioso. È interessante il confronto che opera Scordato fra il martire di mafia Puglisi e i primi martiri cristiani dell’era precostantiniana, quando la Chiesa non era ancora alleata del trono: essi venivano uccisi perché negavano la natura divina dei Cesari, attentando così alla pax socio-religiosa; Puglisi non riconosce la “divinità” e il potere dei mafiosi, denunciando anzi la loro pseudo-religiosità.

In questo senso allora - grazie anche alle riflessioni della teologia della liberazione -, l’espressione “in odio alla fede”, assume un significato nuovo: un mondo, come quello mafioso, che non esclude frontalmente la fede ma la addomestica idolatricamente anche come giustificazione del proprio dominio, non uccide per odio diretto verso la confessione della fede ma verso coloro che cercano di renderla autentica e la realizzano nello smascheramento dell’oppressione e nella costruzione della giustizia sociale.

Va poi aggiunta l’unicità di Puglisi, non nel senso di eroicità sovrumana, ma di non arretramento di fronte al compimento della propria missione evangelica: il parroco di Brancaccio emergeva scandalosamente e pericolosamente agli occhi dei mafiosi rispetto agli altri parrini, i quali vivevano il proprio ministero pastorale all’interno del recinto del tempio o al sicuro della sacrestia, guidati dal proverbiale campa e fa campari, trasformandosi così - scrive Cavadi - in “mandanti inconsapevoli”: se la grande maggioranza dei preti (o dei funzionari pubblici, degli imprenditori ecc.) accetta silenziosamente il sistema mafioso, addita inevitabilmente chi lo rifiuta come “pecora nera” da allontanare.

La beatificazione di un martire di mafia, allora, non dovrebbe essere celebrata come un “trionfo”, ma come una vergogna: la Chiesa cioè “avrà da aprire gli occhi sulle proprie tremende complicità e chiedere perdono per aver incoraggiato e reso quasi obbligatoria, per la propria vigliaccheria, l’eliminazione del suo figlio fedele”.

Cosa resta dell’eredità di Pino Puglisi alla Chiesa di oggi? Sicuramente un contributo al percorso che dalla compromissione e dalla coabitazione - soprattutto ai tempi della Dc - è spesso giunto alla presa di distanza e alla denuncia. Manca però ancora un intervento ecclesiale specifico, originale, concreto ed efficace. Manca soprattutto, conclude Scordato, la rinuncia “a un posto di centralità e di prestigio secondo le modalità di questo mondo”. Ovvero la rinuncia al potere.