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di Francesco Piccolo

La Repubblica, 10 settembre 2022

Dalla serie televisiva di Marco Bellocchio al nuovo libro di Andrea Pomella. Il rapimento del leader della Dc è il Vietnam italiano che continua ad alimentare l’immaginario.

Mentre scrive questo libro che ruota intorno ai tre minuti che hanno cambiato l’Italia, il tempo che è durato l’attacco delle Brigate rosse alle auto di Moro e della sua scorta, Andrea Pomella si reca più volte in via Fani per presidiare il luogo dove è accaduto tutto.

È una terapia, una ricerca di precisione, un voler essere presente oggi nello spazio esatto di 44 anni fa. E una di queste volte, in pieno luglio, invece di trovare il presente, trova il passato: avendolo ricostruito ossessivamente, riconosce subito auto, targhe, posizioni precise in cui stavano la mattina terribile del marzo del 1978. Riconosce per prima la 128 bianca che frenò per bloccare l’auto dove sedeva il presidente della Democrazia cristiana.

Pomella capisce che stanno girando una serie tv. E scrive che il regista è uno dei più importanti in Italia. Dice: si sta occupando di ciò di cui mi sto occupando io. E infatti. In questi giorni esce il suo libro, Il Dio disarmato; la serie tv si chiama Esterno notte, è stata qualche settimana nei cinema dopo il festival di Cannes, e prossimamente si potrà vedere sulla Rai; il regista è Marco Bellocchio.

Certo, non c’è bisogno di chiedersi perché si è fermato il tempo - la domanda è un’altra: perché continuare a raccontarlo? Perché Pomella racconta minuziosamente un evento così conosciuto? E perché Bellocchio, in modo ancora più stupefacente, torna ossessivamente su una storia che ha già raccontato e in modo così personale in Buongiorno notte? E perché noi leggiamo, guardiamo e non ci stanchiamo?

Quello che si è trovato davanti Pomella, quello che è stato ricostruito da Bellocchio sul suo set, la ricostruzione finta di una verità di tanti anni fa, risulta essere invece la verità più nitida e profonda: via Fani, nonostante la vita del presente, è rimasta bloccata lì in quei tre minuti del 16 marzo del 1978. È tutto fermo: per Bellocchio, per Pomella e per tutti noi.

Da parte di tutti è il tentativo di rifare un percorso per cercare di chiarircelo, per cercare di archiviarlo, per cercare di accettarlo, di farci i conti, di imbalsamarlo. Non riuscendoci - quel passato non può passare e non si può chiarire: per questo continuiamo a raccontarlo.

Non è un’esigenza giornalistica, né quella del libro di Pomella, né della serie tv di Bellocchio: non ci sono rivelazioni, non ci sono novità, c’è solo l’esigenza di raccontare; e di conseguenza, se non ci sono motivi nuovi, restano due necessità: l’ossessione e la forma. E in tutt’e due le opere l’ossessione e la forma si uniscono. Bellocchio, insieme ai suoi sceneggiatori (Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino), fa la scelta di dedicare ogni episodio a un personaggio, e di conseguenza ripassa con vari punti di vista sugli stessi momenti; in Pomella la forma ossessiva è psicotica: tornare di continuo su quei tre minuti, su ciò che precede e segue, su Moro, i brigatisti, i passanti, chiunque - persino su chi era Mario Fani che dà il nome alla strada. Quindi tutt’e due le opere rivivono quei giorni in modo angosciato; Pomella è concentrato sui minuti dell’attentato a Moro, e Bellocchio sui giorni del rapimento.

Raccontano l’ansia di Moro, la fissazione di lavarsi e far lavare le mani, il controllo continuo che il gas fosse chiuso; ma raccontano soprattutto questa epica maledetta del destino che sta per arrivare, e qualcosa che è tra quelle che riusciamo a elaborare peggio, e che è ciò che Maria Fida Moro ha continuato a chiedere ai brigatisti ogni volta che negli anni li ha incontrati: voi dormivate, vi svegliavate, bevevate il caffè, vi vestivate mentre sapevate quello che stavate per fare? Com’è possibile? Tutt’e due, il libro e la serie, si soffermano molto sugli istanti; e questo è molto significativo perché vuol dire continuare a non credere che possa essere successo: costruire la narrazione lasciando pensare che è impossibile che dentro la normalità quotidiana sia successo qualcosa di così gigantesco e decisivo.

Ecco quindi prendere forma l’esigenza ossessiva, l’idea che tornare su quella vicenda voglia dire tornare su nodi irrisolti - tentare di scioglierli; voglia dire avere la netta percezione che è impossibile scioglierli; e però c’è in tutt’e due le opere una gigantesca speranza che i fatti ripercorrendoli vadano diversamente, la gigantesca speranza che tutto non finisca come è finito. Una speranza del tutto illusoria e impossibile. Questa incredulità Bellocchio l’ha esplicitata in modo indimenticabile in Buongiorno notte, nello splendido finale in cui Moro è liberato e cammina per Roma all’alba; è il desiderio di respingere la tragedia, cercando di ricomporre quella ferita mortale, di far sì che questa storia sia tollerabile in qualche modo.

Il risultato è sempre lo stesso, per tutti noi: non sappiamo come sia possibile che sia accaduto tutto quello che è accaduto - è per questo che si continua a raccontare, e queste due opere provano a suggerire un’ipotesi: per quanto avessero studiato le strategie, per quanto fossero coscienti di ciò che stavano per compiere - nonostante ciò, era impossibile per i protagonisti immaginare cosa significasse tutto ciò quando poi sarebbe stato compiuto. Sarebbe sia la verità più umana, sia la più terribile: che nessuno - e dico nessuno, e lo dico a prescindere dalle ipotesi che si fanno - è stato all’altezza di ciò che è accaduto. Nessuno, dopo quei tre minuti, ha potuto controllare, comprendere, ciò che è stata la conseguenza di un gesto insostenibile e incredibile, nonostante - e questo il libro di Pomella riesce a raccontarlo molto bene - si vivesse da anni nella paura che ciò potesse accadere.

Adesso, in Esterno notte, Bellocchio fa un passo in più, meno sognante e più cupo: immagina Moro sopravvissuto e ricoverato in ospedale (quindi dopo quella ipotetica passeggiata solitaria); i tre notabili Dc, Cossiga, Andreotti e Zaccagnini, intorno al suo letto, spaventati e orribili (orribili per lo spavento di quell’uomo ancora vivo). Quindi, al contrario di Buongiorno notte, che metteva in scena la nostra speranza più profonda e frustrata, stavolta Bellocchio, chissà quanto involontariamente, mette in scena con una sola inquadratura - i tre intorno al letto di Moro - il pensiero opposto, quello più spaventoso, interpretato dallo sguardo terrorizzato dei tre, e che certo non è lo stesso pensiero della famiglia né di noi italiani: Moro lì, vivo, con quei tre intorno è la prova tangibile che è meglio che Moro non ne sia uscito vivo.

È un pensiero impensabile, ma non lo pensiamo noi, lo pensano quei tre. E nella realtà sappiamo che la salvezza di quei grandi uomini della Dc, per il loro prosieguo, è stata che Moro non uscisse vivo. A prescindere da quanto si siano adoperati per farlo o non farlo. Ma questo pensiero è troppo spaventoso, anche se si mette in scena coloro che lo pensano. Di conseguenza, dopo averci mostrato questa ipotesi parallela, dopo averci fatto balenare il pensiero impensabile, Bellocchio lo cancella subito e torna alla realtà ineluttabile di quello che è successo: è l’unico che finora ci ha mostrato per ben due volte che riraccontandola la storia di Moro si può cambiare; ma il risultato è rendere ancora più sconcertante e inchiodante la Storia come si è svolta nella realtà.

Il Dio disarmato è un libro significativo, interessante - semplicemente: bello; Esterno notte è per molti aspetti un capolavoro della serialità a cui un regista approda mettendo in scena non un ampliamento di un suo film, ma un approfondimento frutto di anni di ossessione, sua e di altri. Una necessità di rifare i conti.

Fare opere sul rapimento di Aldo Moro equivale alle opere che gli americani hanno fatto per decenni sulla guerra in Vietnam: non serve a tenere sveglia la coscienza, perché è del tutto sveglia e addolorata (anche se semplicisticamente si tende a dire che siamo capaci di dimenticare in fretta); ma al contrario a cercare di liberarla, di riscattarne il dolore, a trovare un senso lì dove un senso non si riesce a trovarlo. E alla fine, non si sa se questo libro e questa serie ci aiutino a trovarlo; ma sappiamo almeno che abbiamo ancora bisogno della cura - la cura delle domande. E il tempo poi ristabilisce le proporzioni che allora furono distorte, e restituisce racconto ai singoli individui, e al senso della vita di una persona, non a prescindere dal suo ruolo, ma dentro il suo ruolo. Ogni opera su quei giorni del 1978 aumenta la consapevolezza della grandezza della vita di ogni singolo individuo, perfino di coloro che sappiamo non essere degni. Il libro. “Il dio disarmato”, di Andrea Pomella (Einaudi, pagg. 248, euro 19,50)