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di Sergio Lorusso

Gazzetta del Mezzogiorno, 9 luglio 2023

La coincidenza temporale tra gli sviluppi processuali di fatti che investono la compagine governativa ha immancabilmente riacceso la miccia dello scontro tra poteri, in particolare tra governo e magistratura.

Dopo Daniela Santanché, Andrea Delmastro. La prima ministro del Turismo, il secondo sottosegretario alla Giustizia, entrambi finiti nell’occhio del ciclone giudiziario. La vicenda che coinvolge Delmastro, in realtà, non è nuova (nel febbraio scorso viene ipotizzata la rivelazione del segreto d’ufficio, per aver reso noto al suo collega di partito Giovanni Donzelli, vicepresidente del Copasir, il contenuto di una relazione del Dap sulle conversazioni avvenute in carcere fra Alfredo Cospito e alcuni boss mafiosi), ma è tornata prepotentemente alla ribalta con la richiesta di imputazione coatta formulata dal Gip di Roma. La Santanché, da far suo, sembra aver appreso dalla stampa di essere sottoposta ad indagini (dallo scorso novembre) subito dopo aver riferito sul caso in Parlamento.

La coincidenza temporale tra gli sviluppi processuali di fatti che investono la compagine governativa ha immancabilmente riacceso la miccia dello scontro tra poteri, in particolare tra governo e magistratura, ha risvegliato quel conflitto latente che con alterne vicende caratterizza ormai da oltre tre decadi la scena pubblica italiana. Anche se alcune avvisaglie si sono palesate a metà giugno quando il guardasigilli Carlo Nordio ha presentato il ddl di riforma della giustizia che investe - tra l’altro - l’abuso d’ufficio (abrogandolo) e la disciplina delle intercettazioni, che ha suscitato il consueto scambio di frecciate tra ANM (con aspre critiche arrivate ancor prima che il testo della riforma in fieri fosse reto noto) e il ministro (che ha accusato il “sindacato” dei magistrati di indebite interferenze). Alcuni, anzi, hanno ipotizzato un collegamento tra i passi effettuati dal governo in materia di giustizia - peraltro largamente annunciati nel programma elettorale del centrodestra - e l’evoluzione delle anzidette iniziative giudiziarie. Sta di fatto che il terreno istituzionale è tornato, per l’ennesima volta, a farsi franoso.

Fu l’arresto di Mario Chiesa, esponente socialista milanese colto con le mani nella confettura tangentizia il 17 febbraio 1992, ad avviare la stagione di Mani Pulite - espressione quest’ultima ispirata al film Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi - che incrinò irreversibilmente il sistema politico italiano post-bellico portando alla dissoluzione partiti come la Democrazia Cristiana e il PSI. Sulle sue ceneri nacque la seconda Repubblica, che non è mai riuscita però ad emanciparsi da quella situazione di conflittualità permanente tra politica e magistratura che ne ha condizionato - e continua a condizionarne - l’esistenza.

Se nella prima Repubblica infatti la democrazia era “bloccata”, risultando impossibile l’alternanza tra maggioranza e opposizione a causa del “fattore K” (vale a dire, nella definizione data da Alberto Ronchey, della presenza nel nostro Paese di un Partito Comunista molto forte e strettamente legato all’Unione Sovietica), oggi la democrazia è incompiuta - o comunque imperfetta - per una persistente dialettica tutt’altro che corretta tra potere esecutivo e potere giudiziario.

Nell’ultimo trentennio, dapprima per una sorta di funzione di supplenza rispetto ad una classe politica dapprima frantumatasi e poi rimpiazzata da un “nuovo corso” contraddistinto da profili di indubbia inadeguatezza, la magistratura, in particolare quella requirente, ha assunto più o meno consapevolmente un ruolo attivo nella vita politica italiana. A livello nazionale come a livello locale. Lo scontro tra poteri ha così alimentato un populismo, che è diventato populismo giudiziario fino agli eccessi di quel “magistrato- tribuno” che - sono parole di Giovanni Fiandaca - “oltre a pretendere di entrare in rapporto con i cittadini o con alcuni gruppi sociali particolari” inevitabilmente finisce per far derivare “dallo stesso consenso popolare la principale fonte di legittimazione del proprio operato”. Sono tante le vicende in cui esercizio della funzione giudiziaria e giustizia mediatica si sono mescolate pericolosamente.

Sull’altro piatto della bilancia, naturalmente, c’è l’approccio certo non pacificante di chi afferma che è lecito chiedersi “se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione”, inaugurando “anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee” o sottolinea che “non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione” e il gip imponga di avviare il processo”, lasciando così intendere che si tratta di una forzatura (e non già di una possibilità prevista dal codice di rito sancendo il primato del giudice sulle determinazioni dell’accusa in un sistema caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale), proveniente da non meglio precisate fonti di Palazzo Chigi. Non è certo questa la via per superare - e possibilmente mettere in archivio - l’eterno ritorno dello scontro tra poteri, trasformatosi sembra in destino ineluttabile.