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a cura di Rossella Grasso

L’Unità, 29 luglio 2023

Raccontano di sovraffollamento, vite sospese nel nulla, rapporti umani inesistenti e soprusi. Dal carcere si è sempre scritto tanto. Lettere a familiari, ad amici, alle fidanzate. Se per un attimo coprissimo le date delle lettere scritte dai detenuti negli anni 70 non ci accorgeremmo di nulla di strano: quello che si scriveva un tempo è identico a quello che si scrive oggi.

Sbarre di Zucchero ha voluto fare questa prova. Arrigo Cavallina, attivista, ha recuperato e donato tre lettere del 1975 scritte dai detenuti. Ed è incredibile costatare che potrebbero essere state scritte ieri. “Queste lettere secondo noi sono importanti proprio perché dimostrano che quello che veniva scritto nel 1975 è uguale a quello che viene scritto nel 2023. Questo è una pietra miliare del senso di quello che facciamo. Noi cerchiamo il cambiamento perché da 48 anni non c’è nessun cambiamento, è sempre tutto uguale”, spiega Monica Bizaj di Sbarre di Zucchero. Riportiamo di seguito le tre lettere recuperate dal passato.

Lettera ad un giovane amico in ospedale per frattura (16 aprile 1975)

Quasi quasi sono più libero io, che alla mattina vado a girare di corsa lungo muri di cemento grigio alti più di due metri. E pensa quanto mi sento importante: da una torre una telecamera riprende tutti i miei allenamenti. Io ogni tanto saluto con la mano. Chissà che non mi vedi qualche volta, se all’ospedale hai la televisione. Tu però hai un vantaggio: sai che questo periodo di male (di letto, di sofferenza) non dura tanto: forse anche un mese, o due, sai che poi tutto ritorna come prima. L’importante per non scoraggiarsi quando si sta male è pensare a dopo: Pensa che il tuo “dopo” è di qualche settimana, qui c’è gente che aspetta anni. La “giustizia” è così: che uno intanto sconta la pena (il carcere) e poi - dopo un periodo che va fino a 8 anni - capisci, 8 anni! - si deciderà se è colpevole o no. Qui a San Vittore pochissimi hanno avuto il processo. Quasi tutti stanno aspettando, e non sanno fino a quando.

Oggi m’hanno consegnato un nuovo ordine di cattura. Vuol dire che per me la vita potrebbe essere solo questo, come non esistesse altro. Come fossimo nati per vivere in una stanza e camminare qualche ora dentro triangoli di muri. Che cosa strana la televisione, la lettera, i venti minuti settimanali di colloquio: una visita all’osservatorio astronomico, dove capti con curiosità strani messaggi di un mondo lontano. Non si soffre a non poter andare sulla luna. La vostra vita per me è la luna, non esiste. Sono altre le notizie che cerchi sul giornale: le vicende personali di chi conosci, quelle sulle carceri, quelle di Milano per sapere se verrà una persona nuova in cella con te. Se la vita è solo questa, dentro di lei si guarda la televisione, si beve, si gioca a pallone, si parla per ore di cose che un inverosimile me del passato considerava stupide. Si legge poco, non si fa l’amore (non esistono le ragazze), c’è tanta solidarietà ma nessuna mano, guancia liscia.

Lettera alla fidanzata (4 aprile 1975)

Qualche giorno fa finalmente ho insistito e il brigadiere mi ha accompagnato nella biblioteca. Abbiamo passato la porta chiusa del piano terra e (al contrario di quando vado al colloquio) ci siamo diretti al centro, dove confluiscono tutti i raggi, proprio come i raggi di una bicicletta. Il centro si chiama ‘la rotonda’, in mezzo c’è l’altare e domenica funziona da cappella. Anche durante la messa, però, tra ogni raggio e la rotonda c’è una porta di sbarre. Abbiamo dunque passato due cancelli per entrare nella rotonda e poi nel terzo raggio. Poi porticina, scalette, porticina, biblioteca: percorso e ambiente da soffitta kafkiana, inaspettato, che non c’entra niente con tutto il resto. Vecchietto con gli occhiali sulla punta del naso, che dice “praticamente, abbiamo tutto” e vuole sapere di cosa m’interesso, che ci pensa lui a darmi il libro adatto. Scorro il lungo elenco alfabetico, non c’è quasi niente. Quando bisbiglio “Don Chisciotte” il brigadiere, che si sentiva un po’ tagliato fuori, si illumina e dice trionfante: “È di Cervantes?”. Prendo “Oblomov”, e il bibliotecario dice che passa lui dal raggio ogni giovedì. Ma poi giovedì non è passato e siamo al punto di prima.

Ho cominciato a fare ginnastica, anche se devo fare gli esercizi senza orologio, che qui è vietato. All’aria scendo in cortile, che è composto da alcuni spicchi geometrici e un po’ irregolari, divisi da muri. Lo spicchio più grande è quasi un quadrato. E a girare attorno vicino al muro si fanno circa 60-70 metri. La mattina faccio giri di corsa, il pomeriggio di marcia. All’aria (o se piove nei corridoi) si chiacchiera camminando. Ma la necessità di moto, gli spazi strettissimi, la tensione nervosa sono tali, che vedi ogni gruppo camminare a passo affrettato continuando a fare dietro front vicini al muro. Il passo veloce e i continui dietro front sono l’andatura tipica, angosciosa del detenuto. Sembra che in molte carceri (anche qui) ci sia tensione. Vedi sul giornale quanti episodi. In realtà molte cose sono sempre successe, quotidianamente, e la novità è solo il fatto che le pubblicano. La libertà vuol dire principalmente tu. All’inizio pensavo addio montagne, spiagge; adesso non ci tengo più molto. La stangata del carcere è nei rapporti personali. Questo non toglie che devo stare attento a sorvegliare i ricordi, che non emergano troppo vivi, perché allora è brutta e ci vuol del tempo a riprendere il controllo; per un attimo eri tu, una spiaggia piena di sole, e una sberla con voglia di piangere.

Anche la repressione sessuale è durissima. Attende considerazioni e dibattiti su ogni ragazza alla televisione. Ieri mi sono sognato che mi hanno accompagnato in un posto a parte per fare l’amore con te, che anche eri detenuta, ma dovevamo fare in fretta per lasciare il posto ad altri. Poi siamo usciti e avevamo pochi attimi per parlare prima che ci separassero. Ma, visto che non c’era la guardia, ci siamo allontanati alla chetichella, in mezzo alla gente libera, e abbiamo camminato tenendoci per mano sui prati assolati, liberi. Pensando però che l’evasione è un reato, che poi bisogna stare latitanti tutta la vita, e che probabilmente saremmo usciti in breve tempo per via legale, abbiamo deciso di rientrare, ognuno nel proprio carcere, lasciandoci e salutandoci da lontano.

Lettera ad un’amica (18 aprile 1975)

Certo mi piacerebbe avere la piantina che tua mamma vorrebbe consegnarmi. Ma, oltre alla prevedibile difficoltà burocratica di farla entrare, c’è un altro inconveniente. Circa ogni dieci giorni viene la “perquisa” (= perquisizione). Cioè una squadra numerosa di guardie ci svegliano la mattina presto, ci fanno uscire in corridoio e devastano la stanza senza mai trovare niente, naturalmente. Allora trovano la scusa per portarci via qualcosa: attaccapanni, o coperte, o posate, ecc. Quando rientriamo è tutto sparpagliato: devo cercare le lettere sparse sul pavimento, ci accorgiamo che hanno strappato per dispetto e buttato via pagine di libri, o fracassato lavoretti di fiammiferi incollati su un disegno, ecc. Se ne vanno sfottendo. Lo fanno probabilmente per provocare reazioni, ma noi stiamo sempre calmi. Ecco, non vorrei che se la prendessero anche con la piantina (magari con la scusa di vedere se c’è nascosto qualcosa sotto terra). Ci resterei troppo male.