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di Stefano Cingolani

Il Foglio, 26 ottobre 2024

Quante volte la Consulta si è dimostrata un argine a populismo e giustizialismo. Le intercettazioni. I diritti dei detenuti. La libertà economica. Libertà e sicurezza. Salute e lavoro. La paura della firma. Il suicidio assistito. E adesso arriverà anche il pasticcio albanese sul tavolo della Corte costituzionale? Come ricadrà sul garante di ultima istanza il contrasto che si è aperto tra i poteri dello stato? Poche altre volte nella storia della Repubblica il palazzo della Consulta che guarda il Quirinale (e non per un mero ghiribizzo architettonico) è stato tanto centrale nella vita pubblica e privata. Lo scontro tra governo e magistrati, il difficile equilibrio tra leggi nazionali ed europee, la dialettica tra diritti e valori, tutto ciò rischia di superare i confini tradizionali. Il conflitto è il sale del pluralismo, ma la ricerca di una composizione civile è sconfinata nella dialettica amico-nemico.

Cacofonia delle corti, invasioni di campo, prevaricazione della politica sulla legge e viceversa, tutto ciò non fa parte dell’eccezione italiana. Robert Badinter, l’uomo che fermò la ghigliottina, il giurista francese che come ministro della Giustizia socialista abolì la pena di morte nel 1981, metteva in guardia negli anni 90 dall’emergere del giudice vendicatore. Oggi proprio in Francia Marine Le Pen accusa i magistrati di perseguitarla per impedirle di sfidare Emmanuel Macron nel 2027. Negli Stati Uniti Donald Trump si sente minacciato dalle toghe e conta sulla maggioranza conservatrice alla Corte suprema per “bollinare” una svolta autoritaria. Stiamo parlando delle due repubbliche nate da rivoluzioni liberali, figuriamoci il resto del mondo.

In questo clima da assedio, a istituzioni come la Consulta non basta fare il custode della Costituzione anche perché “la costituzione appartiene a tutti, non solo ai custodi”, come ha ripetuto il presidente Augusto Barbera a Firenze alla Festa del Foglio. Senza forzare il suo mandato, la Corte sta inviando un messaggio chiaramente liberale. Per capirlo raccontiamo alcune sentenze che partendo da casi specifici toccano princìpi generali.

Stefano Esposito, senatore del Partito democratico, viene intercettato 446 volte tra il 2015 e il 2018 dalla magistratura torinese senza che mai il Parlamento abbia dato l’autorizzazione. Il 28 dicembre 2023, la Corte stabilisce che non spettava alle autorità giudiziarie che hanno sottoposto ad indagine e, successivamente, rinviato a giudizio Esposito, disporre, effettuare e utilizzare intercettazioni rivolte nei confronti di un terzo imputato, ma in realtà “preordinate ad accedere alla sfera di comunicazione del parlamentare”. Insomma, niente intercettazioni a strascico, come si dice; l’indagine deve essere mirata, in base a “specifici indizi di reità che si traducono nella richiesta di approfondimenti investigativi”. Il processo per corruzione viene smontato. Era stato il Senato a sollevare il conflitto tra i poteri dello stato. E in quel caso ha vinto il potere legislativo, anzi politico tout court. Nello stesso anno è stato annullato anche il sequestro dei messaggi whatsapp di Matteo Renzi.

La Corte ha difeso i politici, accusati o condannati, ma la sfera dei diritti è ben più ampia e si estende anche a chi ha commesso reati. Una serie di sentenze ha fatto notizia. Nel gennaio di quest’anno la Consulta ha difeso il diritto dei detenuti di incontrarsi con coniuge o convivente senza il controllo a vista e ha bocciato “l’irragionevole compressione della libertà della persona”. Nel marzo scorso ha stabilito che un’archiviazione per prescrizione del reato, accompagnata da apprezzamenti sulla colpevolezza della persona indagata, viola “in maniera eclatante” il suo diritto costituzionale di difesa e il suo diritto al contraddittorio, oltre che il principio della presunzione di non colpevolezza. La difesa della persona è un principio fondamentale applicato anche alla legge che ha bruscamente aggravato la pena per appropriazione indebita. Il caso che aveva innescato l’intervento legislativo sembrava irrilevante ai limiti del ridicolo, si trattava di aver rubato 200 euro, ma la sentenza della Corte stabilisce un criterio di fondo: la discrezionalità del legislatore “non equivale ad arbitrio. Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”. Questa volta i limiti vengono posti al potere legislativo. Ma è anche una risposta a chi da molte parti esprime spesso fastidio sulle “intromissioni” della Consulta e, al grido di “lasciateci lavorare”, vuole il primato assoluto della politica.

Ha fatto scalpore la sentenza del 19 luglio che dichiara incostituzionale il divieto di rilasciare nuove autorizzazioni per il servizio di noleggio con conducente (Ncc) sino alla piena operatività del registro informatico nazionale delle imprese titolari di licenza taxi e di autorizzazione Ncc. Ciò ha consentito, per oltre cinque anni, “all’autorità amministrativa di alzare una barriera all’ingresso dei nuovi operatori”, compromettendo gravemente “la possibilità di incrementare la già carente offerta degli autoservizi pubblici non di linea”. Le innovazioni nel settore dei trasporti “rappresentano il cardine della libertà d’iniziativa economica privata e dell’interazione fra le imprese in un mercato efficiente e attento ai bisogni dei consumatori”. Un pronunciamento clamoroso che ha dato torto al governo, anzi direttamente al presidente del Consiglio che aveva impugnato la legge della regione Calabria che liberalizzava gli Ncc. La libertà d’impresa in questo caso ha vinto su interessi corporativi protetti dal governo, ma più in generale viene ribadito il limite della politica quando mette in discussione diritti fondamentali sanciti dalla costituzione. Lo stesso vale per le concessioni balneari: a giugno è stata dichiarata incostituzionale la proroga concessa lo scorso anno dalla regione Sicilia e ha

Lo stato attraverso le sue massime istituzioni difende l’individuo, questo il principio base, ma lo stato a sua volta si difende e ha il diritto di farlo. Un esempio concreto è il cosiddetto “Daspo urbano”: se sussiste il concreto pericolo che vengano commessi reati è del tutto legittimo impedire l’accesso a luoghi pubblici. La questione era stata sollevata dal Tribunale di Firenze. I casi sono in realtà innumerevoli da Forlì a Cuneo, da Palermo a Roma, non si tratta solo di eccessi delle tifoserie calcistiche, si va da atti vandalici contro i monumenti allo spaccio nei parchi. La sicurezza, spiega la Corte, deve essere intesa nel senso di “garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro lecite attività al riparo da condotte criminose”.

Il decreto legge del 2023, detto decreto Priolo, autorizza il governo, in caso di sequestro di impianti necessari ad assicurare la continuità produttiva di stabilimenti di interesse strategico nazionale, ad adottare “misure di bilanciamento” che consentano di salvaguardare la salute e l’ambiente senza sacrificare gli interessi economici nazionali e l’occupazione. Secondo il gip di Siracusa che aveva disposto il sequestro degli impianti di depurazione di alcune raffinerie, questo schema normativo non garantirebbe adeguata tutela alla vita, alla salute umana e all’ambiente. La Corte costituzionale dopo aver letto le norme ha confermato che, una volta adottate le misure necessarie, il giudice è tenuto ad autorizzare la prosecuzione dell’attività degli impianti, senza poter rimettere in discussione le scelte del governo. In ogni caso, occorre “realizzare un rapido risanamento ambientale” e non invece consentirne “indefinitamente la prosecuzione attraverso un semplice abbassamento del livello di tutela di tali beni”. La Corte così ha stabilito un limite di tempo che non c’era nel decreto e ha dato 36 mesi per ripristinare le condizioni di sicurezza.

Affrontando una vicenda di danno all’erario che coinvolge alcuni carabinieri del comando della legione Campania, la Consulta ha deciso la questione di legittimità (sollevata dalla Corte dei conti) rispetto alla norma introdotta durante la pandemia, la quale limita alle sole azioni dolose, fino al 31 dicembre prossimo, la responsabilità degli agenti pubblici. La Corte ritiene legittima la sospensione e sottolinea che “la disciplina della responsabilità amministrativa va inquadrata nella logica della ripartizione del rischio al fine di trovare un giusto punto di equilibrio”. In sostanza, viene riconosciuto che occorre lasciare autonomia di scelta alla burocrazia il cui scopo è raggiungere risultati, non solo attuare la legge. Da un lato è necessario “tenere ferma la funzione deterrente della responsabilità” per scoraggiare comportamenti scorretti dei funzionari, dall’altro bisogna “evitare che il rischio dell’attività amministrativa sia percepito come talmente elevato da fungere da disincentivo”. È un atteggiamento sempre più diffuso, per il quale è stata escogitata la definizione di “burocrazia difensiva” o anche “paura della firma”.

È la cosiddetta sentenza Cappato, perché le questioni poste alla Consulta nascevano da un procedimento penale contro Marco Cappato, rappresentante legale dell’associazione soccorso civile, Chiara Lalli e Felicetta Maltese, che hanno accompagnato in Svizzera Massimiliano, toscano di 44 anni, per ricorrere al suicidio medicalmente assistito. Per il gip di Firenze il paziente si trovava in una condizione di acuta sofferenza e aveva formato la propria decisione in modo libero e consapevole, ma non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Pertanto ha ritenuto che non sussistessero tutte le condizioni di non punibilità del suicidio assistito fissate dalla Corte nella sentenza n. 242 del 2019. E ha chiesto di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, ritenendolo in contrasto con i princìpi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione terapeutica, di dignità della persona, nonché con il rispetto della vita privata riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Consulta, invece, ha stabilito che in assenza di una legge i requisiti restano gli stessi compresa la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e vanno accertati dal servizio sanitario nazionale. La questione di fondo è che la Corte non ha voluto sostituirsi alla legge ordinaria e ha richiamato il Parlamento a esprimersi su una questione che mette diritto contro diritto, con implicazioni etiche, religiose, personali molto complesse. Lo stesso principio adottato di fronte al cambiamento di sesso.

Registrata come femmina alla nascita, nel corso della pubertà L. N. realizza di non appartenere al genere femminile e afferma di riconoscersi in un genere non binario con prevalenza della componente maschile. Decide dunque di cambiare nome in I. e di presentarsi così in tutti i contesti che frequenta, poi chiede al tribunale di Bolzano l’autorizzazione alla mastectomia e la conseguente rettificazione dell’attribuzione di sesso in un genere non binario. Il tribunale solleva due questioni di legittimità costituzionale. Da un lato c’è il diritto all’identità di genere, cioè vedersi riconosciuto un genere di elezione diverso da quello corrispondente al sesso attribuito alla nascita; e ciò fa parte del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali. Dall’altro lato abbiamo il diritto fondamentale alla salute. La Corte costituzionale dichiara inammissibile la possibilità di rettifica verso un genere terzo, perché la materia appartiene alla discrezionalità del legislatore quale “primo interprete della sensibilità sociale”. Tocca al Parlamento occuparsene. Così come dei diritti di figli e figlie delle coppie omosessuali, pur considerando un reato la gestazione per altri.

Separazione dei poteri, da Montesquieu non si torna indietro. Libertà e dignità della persona, anche quando si trova in prigione. Libertà che si estende all’impresa e alla concorrenza nel rispetto della salute e del lavoro, oppure alla responsabilità di un funzionario pubblico sollevato dalla paura della firma. C’è chiaramente un filo conduttore che guida l’operato di questa Consulta, un filo liberale che populismo e giustizialismo vorrebbero spezzare. Ma la Corte non può essere conquistata. I giudici sono eletti in blocchi di cinque dal presidente della Repubblica, dal Parlamento e dalle supreme magistrature (Consiglio di stato, Corte dei conti, Corte di cassazione), durano in carica nove anni (quindi più del Parlamento e del presidente della Repubblica) e vengono scelti tra ristrette categorie di giuristi con alta preparazione. Oggi ne manca uno e il 16 dicembre scadrà il mandato di tre giudici, a cominciare dal presidente Barbera, tutti eletti dal Parlamento. Un bel pacchetto, non c’è dubbio. E’ scoppiata una baruffa con le opposizioni e per ragioni diverse anche nella maggioranza quando Giorgia Meloni ha sponsorizzato Raffaele Borriello, capo di gabinetto di Lollobrigida all’agricoltura. La Corte dovrà occuparsi dell’autonomia regionale, la Lega teme la bocciatura e non si fida nemmeno dei suoi alleati, quindi vorrebbe mettere il suo segno sulle nomine. Ciò potrebbe davvero ridurre l’indipendenza della Consulta? Chi sale quello scalone entra a far parte di un collegio e porta il suo contributo a decisioni che sono di tutti. L’obiettivo è arrivare a una composizione dei punti di vista, anche per questo non è consentita l’opinione dissenziente, a differenza dalla Corte suprema americana nella quale i giudici sono a vita. La composizione della Consulta è fatta in modo che non ci sia una scadenza in blocco dei diversi mandati e non c’è mai una brusca cesura. La giurisprudenza può mutare, ma nell’ambito di una fondamentale continuità. Certo ogni Corte costituzionale è anch’essa figlia dei tempi e questi sono i tempi in cui la liberaldemocrazia va difesa, anzi rafforzata. Tempi in cui tornano Arturo Rocco e Carl Schmitt, ma anche per questo vanno letti e riletti Benedetto Croce e Hans Kelsen.