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di Alessandro Parrotta*

Il Dubbio, 19 ottobre 2022

Il tema dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte dell’Accusa è tema che coinvolge, a più livelli, molteplici interessi e visioni del processo penale. Dibattito che - drammaticamente, si direbbe - ritorna sempre attuale in tutti quei casi in cui, complice anche l’abnorme durata dei processi, un soggetto si veda assolto con una doppia conforme perché il pm ha appellato la sentenza di assoluzione di primo grado.

Come noto, la disciplina dell’appellabilità delle sentenze penali era stata profondamente modificata con la legge 46/ 2006 (cd. Pecorella), poi cassata un anno dopo dalla Corte Costituzionale per asserita violazione del costituzionalizzato principio di “parità delle parti”. La legge aveva operato un massiccio ridimensionamento del potere d’appello del pm contro le sentenze di proscioglimento, in particolare prevedendone tout court la loro inappellabilità. Questo perché si era cercato di rimediare, probabilmente con una soluzione un po’ troppo radicale ma condivisibile nei fini, alle incongruenze che effettivamente sussistono nel caso di condanna per la prima volta in appello di un imputato assolto in primo grado: di fatto all’imputato verrebbe sottratto un grado di giudizio di merito, e quindi la possibilità di proporre appello, perché non potrebbe impugnare nel merito la pronuncia che lo ha condannato in secondo grado ma solo ricorrere per cassazione. Ad oggi, si è invertito il paradigma: la legge Pecorella dichiarava inappellabili tanto da parte del pm quanto da parte dell’imputato le sentenze di proscioglimento, tranne nei casi di emersione di nuove prove, sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado; oggi, le sentenze dibattimentali di proscioglimento rimangono sempre appellabili tranne alcune eccezioni che coinvolgono tanto il pm quanto l’imputato.

Da più osservatori, oggi, si lamenta - condivisibilmente - la deriva che ha assunto l’istituto dell’appello del pm contro le sentenze di assoluzione in primo grado, ormai sempre più “personalistico” e sempre meno deputato al ruolo che gli compete, e cioè quello di censura di errori in fatto e/ o in diritto compiuti dal giudice di prime cure. Come osservato da Gian Domenico Caiazza, la ragione di tale cortocircuito risiede nel fatto che “sul piano professionale, si è quasi costretti a non rassegnarsi al verdetto assolutorio. Il magistrato dell’accusa che accetta la sentenza di proscioglimento - a loro dire - dichiara implicitamente che le sue ipotesi erano sbagliate”. Circostanza che, unita con gli altri grandi “mali” del processo penale (primo tra tutti, quello che sono diventate le misure cautelari), contribuisce a rendere sempre più distante l’idea di Giustizia da parte del cittadino, sentimento non biasimabile se solo si pensa a tutti quei soggetti che, sottoposti ad indagini a rilento e destinatari di una doppia conforme (a seguito di appello del pm), hanno sacrificato ingiustamente tempo, occasioni e - talvolta - una carriera, imbrigliati (quasi) ad infinitum nelle maglie della giustizia penale. La proposta di un ritorno alla legge Pecorella accolta con favore dall’Unione delle Camere Penali Italiane e con maggior diffidenza da parte dell’Anm (che boccia in pieno la proposta, già cassata - a suo dire - dalla Consulta), avrebbe come terreno di ispirazione la Relazione della Commissione Lattanzi la quale, istituita dalla uscente ministra Cartabia, aveva già (re) immaginato l’introduzione di una generale inappellabilità da parte del pm delle sentenze di assoluzione in primo grado con l’ovvia previsione di contraltari, tali da non pregiudicare il principio di “parità delle parti” tanto caro alla Consulta del 2007.

La Commissione Lattanzi, prendendo le mosse proprio dalle recenti indicazioni della giurisprudenza costituzionale in materia di impugnazioni, rimarca con forza la “diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell’art 112 Cost. - e, dunque, più “malleabile”, in funzione della realizzazione di interessi contrapposti - quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all’art. 24 Cost. - e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi - quello dell’imputato” (sent. 34/ 2020). E ancora, “il potere di impugnazione della parte pubblica non può essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, enunciato dall’art. 112 Cost”. La soluzione, coraggiosa, immaginata dalla Commissione sarebbe dunque quella di rendere solamente ricorribile per Cassazione, da parte del pm, una sentenza assolutoria di primo grado, mezzo di impugnazione ritenuto ugualmente e maggiormente in grado di attivare il controllo di legalità (sulla corretta applicazione della norma sostanziale), di legittimità (su eventuali errores in procedendo) e di razionalità del giudizio di fatto (sulla corretta applicazione delle regole della logica) della decisione. Come già osservato su queste pagine, anni addietro, i tempi sono maturi per una profonda riflessione intorno ad una tema così delicato, con il quale, sulla scorta dello spirito riformatore che ha ispirato la Riforma Cartabia, il nuovo Esecutivo dovrà necessariamente confrontarsi.

*Avvocato, direttore Ispeg