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di Maria Novella De Luca

La Repubblica, 13 maggio 2023

Nel 1973 lo psichiatra e i suoi pazienti dietro la statua di “Marco Cavallo” ruppero il muro del manicomio. Dagli ospedali psichiatrici uscirono centomila pazienti che vivevano in condizioni disumane. Cosa resta oggi di quella riforma che portò alla legge 180 del 1978? Giovanna Del Giudice e Peppe Dell’Acqua: “Senza risorse e operatori rischiamo di tornare alla segregazione dei malati”.

Ciò che resta è prima di tutto un roseto. Magnifico. Perché la bellezza cura e ripara. Dove c’erano segregazione e violenza, dove sbarre, grate, camicie di forza, elettroshock e volti senza luce separavano il mondo dei (cosiddetti) normali, dal mondo dei (cosiddetti) pazzi, oggi c’è un immenso giardino che esplode nel rigoglio di primavera, tra seimila rose di infinite e diverse varietà. Parco San Giovanni, ex manicomio di Trieste, “la libertà è terapeutica” dice la grande scritta oltre il cancello, svetta sul viale la sagoma in ferro di Marco Cavallo, cinquant’anni fa lo psichiatra veneziano Franco Basaglia apriva le porte di questo enorme complesso dove erano internati, in una condizione “de-umanizzata” più di 1.200 pazienti (vecchi, adulti, bambini) dando vita ad una delle più grandi rivoluzioni sociali e scientifiche del Novecento.

“Il manicomio non si cambia, si distrugge” affermava Basaglia, mentre in quelle carceri sanitarie di tutta Italia vegetavano più di centomila disperati. Corpi nudi, teste rasate, stoviglie di ferro, punizioni, sopraffazione, celle di isolamento. L’iconografia poteva essere migliore o peggiore, ma poco cambiava. I bambini. Buttati là non perché malati ma semplicemente poveri, abbandonati, rifiutati, “figli della colpa” scardinati dalla vita. “Noi neghiamo il malato come malato irrecuperabile e quindi il nostro ruolo di semplici carcerieri, tutori della tranquillità della società”. Appunto. Era il 1973 e portando in corteo la statua azzurra del cavallo “Marco” costruita dai pazienti dell’ospedale, Basaglia e i “matti” sfondano i cancelli del San Giovanni ed entrano, finalmente, nella città. La reclusione diventa cura, fuori, nei territori, nell’inclusione.

Bisogna partire da qui, dai tavolini del bistrot “Il posto delle fragole” gestito da una cooperativa sociale dove lavorano persone con sofferenza mentale, per provare a capire, a 45 anni dal varo della legge 180 che sancì la chiusura dei manicomi, a 43 anni dalla morte di Franco Basaglia e a quasi due mesi da quella di Franco Rotelli, suo collaboratore ed “erede” a Trieste, cosa resta e quanto resta di quella rivoluzione. Tra tagli di risorse, nuove segregazioni, reparti blindati e contenzione. Ora che la morte della psichiatra Barbara Capovani per mano di un suo ex paziente Gianluca Seung (capace di intendere e di volere) ha portato in piazza centinaia di operatori della salute mentale che chiedono sicurezza, anche in aperta contestazione della legge 180 (accusata di essere inattuale e inapplicabile) è dal cuore battente del “laboratorio Trieste” che possono però, ancora, arrivare risposte.

Giovanna Del Giudice è stata una delle giovani collaboratrici di Basaglia e di Franco Rotelli, direttore dell’ospedale psichiatrico dal 1979 al 1995, poi a lungo alla guida dell’azienda sanitaria di Trieste. “Avevo 24 anni e arrivavo dal Sud. Volevo soltanto una cosa: lavorare con Basaglia” ricorda con passione e indomita tenacia. È proprio accanto al roseto voluto nella discarica del manicomio da Franco Rotelli, in una giornata di ricordo dello psichiatra appena scomparso, tra l’affetto dei colleghi di una vita come Peppe Dell’Acqua e giovani psichiatri con la voglia di ripartire da quell’eredità che Giovanna Del Giudice, presidente di Copersamm, (Conferenza permanente per la salute mentale nel mondo Franco Basaglia) prova a tracciare un bilancio. Insieme a Devora Kestel, direttrice del Dipartimento di salute mentale dell’Oms: “Ho vissuto alcuni anni proprio qui, al San Giovanni, per studiare il modello Trieste. Ancora oggi”, dice Kestel, “quando devo fare un esempio realizzato di salute mentale, con servizi accessibili a tutti, cito Basaglia e questo luogo dove abbiamo imparato che le cose possono succedere e cambiare”. L’utopia realizzata della de-istituzionalizzazione, i muri che si sgretolano, la luce che torna in vite considerate scarti. Se è vero, come sottolinea Kestel, che “la legge 180 non è mai stata del tutto applicata”, di fronte a tragedie come quella di Pisa, bisogna però chiedersi “cosa non ha funzionato, perché non abbiamo agito prima, piuttosto che invocare repressione e leggi più dure”.

Il sole è forte, Peppe Dell’Acqua è seduto sotto un gazebo, lo abbracciano colleghi, amici, pazienti, come fosse, un po’, il padre di tutti. Da cinquant’anni difende, strenuamente, la libertà dei matti. “La legge Basaglia viene sempre chiamata in causa per coprire il disinteresse di regioni, governi e ministeri verso la malattia mentale, per nascondere investimenti miseri, disorganizzazione, ostilità burocratica e resistenza al cambiamento. Ci accusano addirittura di aver armato culturalmente la mano dell’assassino di Pisa. Che assurdità, che amarezza. Tacendo invece quei risultati meravigliosi di re-inclusione nella vita di migliaia di persone là dove ci è stato permesso di operare. Quanti sono vivi ancora grazie alla legge Basaglia, quanti hanno avuto una vita dignitosa nonostante la malattia mentale?”.

“Toccare la terra, bagnare le rose, cambiare le cose” diceva Franco Rotelli. Racconta Giovanna Del Giudice: “Le criticità oggi sono moltissime, anche in Friuli Venezia Giulia, ma l’impianto della legge 180 è saldo. C’è stato un salto storico da cui non si torna indietro: il manicomio non lo vuole più nessuno, né gli operatori né tantomeno le famiglie. Le persone con sofferenza mentale, grazie a Basaglia, sono oggi cittadini con diritti e identità, non più una folla indistinta di reclusi considerati per legge socialmente pericolosi, semplicemente perché malati”.

È nel passaggio dall’ospedale psichiatrico, luogo di segregazione, ai centri di salute mentale sul territorio, di cui Trieste è stata anticipatrice, con gli ex degenti che via via venivano dimessi e inseriti in appartamenti, case, in cooperative lavorative, il fulcro della riforma che porterà alla legge 180 del 13 maggio 1978. (Ci vorranno però altri 20 anni perché l’ultimo manicomio, Santa Maria della Pietà a Roma, chiudesse i battenti, nel 1999). In un’idea della cura che comprendeva - e comprende - pure i farmaci, come ricorda Giovanna Del Giudice, ma anche quelle ragioni sociali e ambientali, povertà, disagio, esclusione, abuso “che insieme ad una eziologia biologica e psicologica sono causa della sofferenza psichica”. Ossia la grande intuizione di Franco Basaglia, a lungo osteggiata dalla psichiatria tradizionale: la follia si nutre di disuguaglianze.

Sul palco del roseto si alternano le voci degli operatori sociali, dei tecnici della riabilitazione, ma anche artisti, ex pazienti, scrittori, musicisti. Esemplificazione plastica della barriera inesistente tra normalità e follia. “Per affrontare la malattia mentale bisogna anche farsi carico del contesto in cui la persona vive. Ed è quello che a Trieste per lungo tempo siamo riusciti a fare, partendo dai quattro centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, in relazione con tutte le realtà della città” spiega Del Giudice. Pubblico, privato, terzo settore, borse lavoro, budget di salute, l’arte, la musica, il teatro. “Oggi soffriamo un drammatico calo di risorse e di colpevole distrazione della politica. Mancano migliaia di operatori. I fondi per la salute mentale sono a livello nazionale soltanto il 2,6% di tutta la spesa sanitaria, erano il 3,1%, addirittura diminuiti nell’ultimo anno, mentre la sofferenza mentale in particolare tra i giovanissimi è esplosa. C’è una regressione culturale sia delle pratiche sia dei dispositivi organizzativi, pensate che sono soltanto 20 su 320 i servizi di diagnosi e cura che non legano i pazienti”. (Si stima che 4 milioni di persone in Italia soffrano di disturbi psichici ma sono soltanto tra 800 e 900mila quelle assistite nei dipartimenti di salute mentale, con pesanti ricadute sulle famiglie).

“La terapia sta tornando ad essere unicamente farmacologica - ammette con amarezza Giovanna Del Giudice - ed avanza la cultura dell’internamento”. Con la psichiatria chiamata, di nuovo, non solo a curare, ma anche a “custodire” pazienti. In quell’ottica segregazionista che porta ad alzare muri e a rinchiudere: dai vecchi nelle Rsa ai migranti incarcerati nei centri di accoglienza. La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, dove i detenuti vivevano i condizioni disumane, conclude idealmente nel 2015 la riforma Basaglia. Ma il passaggio alle Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non ha funzionato. Gli autori di reato con problemi mentali vengono dimenticati nelle carceri o “scaricati” nei servizi diagnosi e cura (ex reparti psichiatrici) degli ospedali. “Pensare di addossare alla legge 180 tragedie come l’assassinio di Barbara Capovani invocando la riapertura dei manicomi è inaccettabile. I malati di mente, dicono le statistiche, non delinquono più degli altri. Ma di certo - conclude Del Giudice - dovremo capire perché Seung non è stato intercettato dai servizi, se per lui era in atto un progetto di presa in carico. Sono tutti interrogativi dolorosi ai quali, però, non ci possiamo sottrarre”.