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di Francesca Coin

La Stampa, 5 giugno 2023

Le dimissioni di massa sono la cartina di tornasole del divario tra bisogni e sistema produttivo. L’indisponibilità al lavoro è una risposta inattesa e disorganizzata al collasso climatico e sociale. La politica nazionale e, per molti versi, internazionale, ha abdicato da anni alle grandi sfide del presente. Troppo a lungo, l’unico scopo del nostro modello produttivo è stato tagliare il costo del lavoro e aumentare i profitti. In questo contesto, poco spazio è stato dedicato a temi importanti, come la necessità di tutelare ed estendere i diritti del lavoro e di ripensare le finalità della struttura produttiva in un’epoca segnata dal cambiamento climatico, dall’automazione e dall’intelligenza artificiale, dal crescente bisogno di cura da parte della popolazione. Circa un secolo fa, l’economista britannico John Maynard Keynes ha tenuto a Madrid un importante discorso poi pubblicato con il titolo Prospettive economiche per i nostri nipoti, che preconizzava come, nel nostro tempo, la crescita della capacità produttiva avrebbe consentito di risolvere il problema della scarsità e di marginalizzare il ruolo del lavoro nella nostra vita. Cento anni dopo, la capacità produttiva è aumentata talmente tanto che l’umanità ha bisogno di fare un salto da gigante se vuole ridurre la pressione sull’ambiente e il consumo di risorse, senza trovarsi in una condizione di siccità, scarsità idrica e carenza alimentare, ha scritto l’ultimo rapporto del Club di Roma. In un contesto diseguale come quello in cui viviamo, le grandi potenzialità della nostra epoca si sono trasformate in problemi. Le sfide del presente sono diventate così grandi che la politica, incapace di rispondere, si volta dall’altra parte. Oggi non c’è un’unica soluzione in grado di rispondere alle crisi multiple in cui viviamo. In questo contesto, le poche risposte vengono dal mondo del lavoro e dal movimento ambientalista.

Per circa due anni, il Collettivo di Fabbrica Gkn, il gruppo di lavoratori della fabbrica di semiassi di Campi Bisenzio, ha saputo trasformare l’annuncio di licenziamento da parte del fondo di investimento britannico Melrose in un laboratorio di discussione teorica e politica sulla necessità di convertire la produzione e di immaginare una fabbrica socialmente integrata a basso impatto ambientale, in grado di proteggere l’occupazione e i diritti acquisiti nel tempo, e nella quale gli operai siano coinvolti nel processo decisionale. Nonostante mille avversità e l’incuria da parte delle istituzioni, questo tipo di discussione ha aperto una breccia nell’immaginario collettivo, mostrando come il futuro debba muovere nella direzione di una produzione sostenibile che abbia come suo primo scopo la riproduzione e la cura dell’ambiente e della popolazione.

In assenza di una conversazione di questo tipo, è inutile sorprendersi se le persone si disaffezionano al lavoro. Un sistema in grado di rispondere solo alle esigenze di profitto non può raccogliere entusiasmo. In questo contesto, le Grandi dimissioni sono la cartina di tornasole dello scollamento tra i bisogni della società e le finalità del sistema produttivo. In assenza di una prospettiva di trasformazione, questa disaffezione promette di continuare anche se il numero di dimissioni dovesse ridursi, come epitome dell’indisponibilità a un modello produttivo incapace di offrire un futuro diverso rispetto al collasso climatico e alla guerra sociale. Negli ultimi due anni, le Grandi dimissioni sono state una risposta inattesa e disorganizzata a questa situazione.

Insieme a un numero crescente di proteste e scioperi, manifestazioni e assemblee cittadine, l’indisponibilità al lavoro è riuscita a generare tra la classe imprenditoriale la paura di non poter continuare a produrre a causa dell’assenza di personale. Dagli Stati Uniti alla Cina, passando per la Francia, le piazze l’hanno detto con forza: “Non c’è solo il lavoro nella vita”, “Vogliamo lavorare meno e vivere di più”. Negli anni Settanta, la fine del lavoro salariato era un costrutto teorico: l’ipotesi di chi sosteneva che, con la crescita dell’automazione, si sarebbero lentamente venute a creare le condizioni per una società libera dal lavoro. Oggi liberare la vita dal lavoro è un’urgenza esistenziale. Lo ha detto Jean-Luc Melenchon lo scorso 21 gennaio 2023, nel corso di una grande manifestazione contro l’aumento dell’età pensionistica.

Non stiamo solo difendendo il diritto a una pausa nella vita, stiamo dicendo che il tempo della vita, il tempo che conta, non è solo quello che si ritiene utile perché produce. Vivere, amare, prendervi cura della vostra famiglia, leggere poesie, dipingere, cantare o non fare nulla: il tempo libero è il tempo in cui abbiamo l’opportunità di essere pienamente umani. È di questo che stiamo parlando.

Il problema, dunque, non è la carenza di lavoratori. È che la vita non è una merce. La ricchezza non è il denaro. Perciò le persone rifiutano di lavorare: per vivere. I ricchi ci rubano il tempo per vivere, hanno detto le piazze francesi. In modo capillare e diffuso, parole come queste attraversano le piazze e fanno capolino nelle nostre conversazioni quotidiane, dando voce all’urgenza di riprendersi il tempo per vivere, per riposare e per rigenerare il pianeta. Ne troviamo traccia nella produzione culturale indipendente, si pensi a pezzi come Snoopy, del gruppo napoletano Addolorata, o a “Io non lavoro più”, del comico Frank Gramuglia. Storicamente, trasformazioni culturali come queste hanno scandito l’emergere di lotte capaci di fermare la produzione per ottenere nuovi diritti. Il mondo è pronto, per un sistema produttivo basato su modelli altri rispetto all’esaurimento delle nostre energie fisiche e mentali e delle risorse della Terra. Come ripete il Collettivo di Fabbrica Gkn, il cielo e l’unico limite. Tutto il resto è possibile. Insieme.