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di Massimo Donini

L’Unità, 2 luglio 2023

La pena non solo più come dolore inflitto, il giudice non più solo come dispensatore di mali. Basta con lo stigma nei confronti del reo. È la più grande novità politica degli ultimi venti anni, ma non è la porta per l’ingresso del paradigma vittimario nel processo.

La più grande novità politica, non teorica, degli ultimi vent’anni, nel campo della giustizia penale, è l’idea che chi viene punito ha una possibilità straordinaria di riconciliarsi con la società, con la vittima, con lo Stato, mediante condotte attive di tipo riparatorio, o anche risarcitorio, che si sostituiscono in parte alla pena subìta, perché sono una pena agìta.

La pena, dunque, non è solo un dolore inflitto, una perdita di diritti. Anche il giudice non è più un semplice distributore di mali aggiunti, quando condanna. Suo compito non è mai di condannare semplicemente (la pena “espressiva-simmetrica”), per quanto la comunicazione pubblica si concentri da sempre su questo limitato e simbolico atto: egli offre un ventaglio di possibilità per risolvere il conflitto sorto dall’illecito, e lo fa, da ora, già nell’atto di pronunciare la sentenza. La persona accusata non deve guardare al magistrato penale con paura o sgomento, espressione di un potere violento che lo vuole estromettere con stigma e biasimo dal contesto civile.

E il magistrato che abbia pulsioni punitiviste-giustizialiste non dovrebbe svolgere questo compito giudicante, se non dopo aver conosciuto la realtà del carcere, delle pene alternative, della restorative justice, delle decine di forme di giustizia riparativa, delle sanzioni davvero ripristinatorie-restitutorie- risarcitorie di tipo non penale offerte dal sistema. Egli dovrebbe essere partecipe, invece, della gioia e della responsabilità di restituire alla persona offesa e alla società in tutto o in parte il bene che le è stato tolto o sacrificato o leso, insieme con nuove chances di recupero, di risocializzazione, di riammissione nel contesto sociale per l’autore del reato.

Certo non ogni delitto è riparabile pienamente, ma sono possibili condotte sostitutive e alternative a risarcimento e riparazione dell’offesa o riconciliazione con la vittima. C’è un ventaglio di “prestazioni” di “attività di formazione e lavoro”, di progettualità (la “pena-progetto”) che entrano in una declinazione più ampia dei meccanismi che orientano chi ha commesso un reato, se si rende partecipe di tali programmi, alla riconciliazione con i precetti (la “revisione critica”), con la società e con la persona offesa.

È una dimensione che obbliga a rivedere la realtà, l’organizzazione e l’idea classica del carcere, che nella sua dimensione “chiusa” e segregatrice è destinato piuttosto alle categorie circoscritte di persone ancora bisognose di neutralizzazione e controllo stretto della pericolosità. Uno degli aspetti più odiosi della c.d. giustizia penale della tradizione è di essere escludente, stigmatizzante e violenta contro il “reo” (brutto termine tecnico che nel codice penale canonico è usato come sinonimo di imputato, e in quello penale statale come sinonimo di responsabile), e non solo contro il delitto, per cui chi ha avuto la colpa o la cattiva sorte di delinquere, o anche solo di infrangere una regola penale, sa che avrà dalla sua parte il difensore, talvolta qualche familiare e amico, ma contro di sé la società e i media. Biasimo, rimprovero e condanna morali lo circondano come un nemico, perché è la sua punizione sacrificale a risolvere il problema sociale del delitto.

“Uccidere il capro espiatorio” basterà. Soltanto la Chiesa, per chi crede, nata da un capro espiatorio, è luogo dove trovare conforto umano e perdono, ma anche accoglimento, sia pure di fronte a una resipiscenza declinata come pentimento. La società, invece, esclude e bandisce la persona senza nulla sapere dei suoi moventi, della sua anima, che non interessa il diritto (non esiste più, tecnicamente, l’anima per il diritto) nel momento del giudizio, perché laicamente si giudica il fatto, al quale si collega un soggetto che lo abbia commesso con un “dolo” o con una “colpa” ai quali è estraneo, come componente concettuale di essenza tecnico-giuridica, il profilo della motivazione, dove risiede invece tutta l’umanità di quello che si è commesso. I “motivi a delinquere”, altra espressione quasi sanitaria del codice, appartengono alla dimensione delle circostanze, degli aggravamenti sanzionatori, della gravità del reato, delle prognosi su capacità a delinquere e pericolosità, non al reato in sé e alla sua ordinaria umanità.

Nell’universo dell’idea riparativa, invece, spetta al giudicante un compito positivo, non un atto puramente afflittivo-vendicativo. La macchina processuale si può orientare così, da strumento di guerra contro il crimine, a istituzione socialmente utile in senso personalistico. La dimensione retrospettiva e retributiva, in tale orizzonte, conserva peraltro una funzione di limite necessario: è limite perché non si può punire oltre il fatto commesso e la sua gravità; è limite perché non si può estendere nel futuro una sanzione sproporzionata rispetto a quel fatto; è limite perché non si sostituisce l’autore (un giudizio sull’autore, sul tipo di autore) al fatto; è limite, perché nessuna persona è fotografata per sempre, nel suo valore, attraverso il disvalore dell’immagine di un singolo atto o fatto commesso: tutti valgono assai più di quegli atti.

È limite, infine, perché è solo quell’atto che costituisce l’oggetto del giudizio nella ricostruzione della c.d. colpevolezza, di quel dolo o di quella colpa che risultano privi di scusanti. Tuttavia, ed è questa un’altra grande novità dell’idea riparativa, ciò che la persona abbia positivamente attuato dopo il fatto, cioè la condotta successiva, il postfatto, cambia la pena e anzi la può in parte sostituire e assorbire. Chi ha riparato e risarcito, del resto, ha sempre avuto un trattamento diverso dalla giustizia penale. Senza doversi dichiarare colpevole. Ma questo faceva parte e fa parte della riparazione “prestazionale” (utilitaristica), a favore della vittima, che lo Stato ora assume come progetto sanzionatorio ordinario da perseguire, da sollecitare, favorire, con tanti istituti (restituzioni e risarcimenti, messa alla prova, condoni e sanatorie, riduzione delle conseguenze dell’offesa, collaborazioni processuali alla ricostruzione dei fatti, forme riparatorie economiche o lavorative, oblazioni allargate nei reati di impresa, etc.).

C’è peraltro anche una riparazione di tipo più “interpersonale” o riconciliativa (idealistica) tra autore e vittima, o tra autore e società, che riguarda i rapporti tra le persone e la relazione dell’autore con la violazione dei precetti e dei valori. È il terreno della restorative justice, della mediazione penale. La riforma Cartabia ha disciplinato in realtà, come compito organizzato dallo Stato, e non semplice opportunità dei privati, solo questo tipo di riparazione, sollecitando le preoccupazioni degli avvocati difensori che hanno interesse a salvaguardare la presunzione di innocenza dei loro assistiti, e a non cedere a un clima che li spinga, se non a “confessare”, comunque a gesti o atti che li rivelino colpevoli o remissivi di fronte all’accusa.

Nella mediazione penale l’avvocato e il giudice sono estromessi: tutto avviene fuori dal processo davanti a un “mediatore” professionale che, aiutando autore e vittima nell’incontro conciliativo, realizza obiettivi di superamento esistenziale dei conflitti. Se peraltro tutto ha un esito positivo, una breve relazione del mediatore potrà confluire negli atti del processo, con varie conseguenze, di attenuazione e talora anche di esclusione della pena.

Sennonché le forme di riparazione sono sempre duplici e quella interpersonale si deve risolvere in qualche prestazione oggettiva se vuole ottenere benefici processuali. Non basterà una dichiarazione positiva del mediatore. Gli avvocati hanno nel processo una permanente debolezza di fronte all’autorità a volte violenta della magistratura. È comprensibile che si possano sentire estromessi da meccanismi che volessero sollecitare atteggiamenti processuali “remissivi”.

Li devono contrastare se tutelano posizioni di non responsabilità. La mediazione penale è fatta per situazioni tipiche di giudizi abbreviati, patteggiati, per reati colposi o dove sono in gioco questioni processuali, o di qualificazione giuridica etc., oppure per l’esecuzione penale, dove è ormai esaurito il giudizio sul fatto. L’idea riparativa non è e non deve diventare la porta per l’ingresso del paradigma vittimario nel processo: la vittima non è protagonista, ma testimone, oppure parte cha aziona interessi civili. Se dunque appare del tutto esagerata l’aspettativa che la restorative justice (riparazione interpersonale) risolva i problemi della giustizia penale, considerati i limiti oggettivi e costituzionali del suo impiego di fronte alla presunzione di innocenza dell’imputato, che la azionerà nel processo solo quando abbia interesse, tuttavia l’idea riparativa nel suo complesso (prestazionale e interpersonale) rimane una novità assoluta di cui tutti, avvocati e magistrati, ma anche consociati, dovrebbero rallegrarsi.

È la cultura del punire, nel suo complesso, che può cambiare in senso umanistico, ma anche con esiti positivi e concreti per l’eliminazione o la riduzione delle conseguenze dei reati. Ulpiano (170 circa-228 d.C.), all’inizio delle Regulae (I,1-2) definisce “perfetta” la legge che vieta che qualcosa sia fatto e, se viene fatto, lo annulla; “imperfetta” la legge che non applica né una sanzione né un effetto di annullamento per un atto ad essa contrario; “meno che perfetta” la legge che, vietando qualcosa, sanziona il comportamento che la trasgredisce, ma non annulla gli effetti dell’illecito. Adottando questa classificazione è ovvio che il diritto penale appartiene al novero delle leggi meno che perfette.

Sua caratteristica essenziale sinora, infatti, è stata quella di aggiungere un male al male commesso come conseguenza certa o principale, lasciando che la riparazione della ferita, della lesione, dell’offesa prodotta dal delitto o rimanga irrisolta perché sarebbe impossibile un suo annullamento, o resti affidata alla buona volontà o all’iniziativa dei privati, perché scopo o interesse principale dello Stato non era che alla fine del suo intervento risulti necessariamente un saldo positivo, un risarcimento, una riparazione, un ripristino, come accade per es. in diritto civile e in parte in quello amministrativo: questa eventualità promossa e sperata non elimina il raddoppio o comunque un aumento del male che è l’unica conseguenza certa dell’intervento penale, posto che nessuno può sapere - e semmai si può spesso ipotizzare il contrario - se la pena avrà effetti di emenda, rieducazione o risocializzazione.

La risposta penale-criminale è sempre un quid pluris rispetto a un contenuto risarcitorio o riparatorio ritenuto insufficiente. Orbene, l’idea riparativa, oggi, rappresenta esattamente la sottrazione al momento simmetrico-retributivo classico di una parte di “pena” che, offerta al responsabile, indagato, imputato o condannato, si inserisce nel rapporto tra autore, vittima e società definendo in modo libero e non coartato una soluzione che riguarda una vicenda non solo “privata”, ma lo stesso riconoscimento del precetto e dei valori, offrendo anche prestazioni concrete, dove possibile, alle persone offese o per la riduzione dei pericoli o dei danni da reato. Il penale non è più solo un male aggiunto, ma una istituzione socialmente utile nel suo essere distinta da rimprovero, condanna, esclusione e segregazione.

Queste dimensioni punitiviste resteranno, antropologicamente e giuridicamente, al suo interno, ma non potranno più occupare l’immagine unitaria e disumana delle pene e delle condanne. Chi scommette sulla riparazione, oggi, ha davanti a sé una società punitiva diversa e capace davvero di includere in modo utile, concreto e umano.

Chi la contrasta rimarrà nell’orizzonte di quella legge non solo meno che perfetta, dove lo Stato non si assume i compiti di restaurare nulla con le pene, limitandosi a una relazione autoritaria non dialogica, ma afflittiva tra Stato e “reo”: una logica che, peraltro, è attualmente superata tecnicamente da ormai troppe regole del diritto positivo, sostanziale e processuale, nazionale e internazionale, che offrono un riscatto diverso dalla pena simmetrica.