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di Corrado Augias

La Repubblica, 14 ottobre 2022

Il discorso della senatrice per l’inaugurazione della legislatura tra i suoi ricordi e la condanna del fascismo che sopravvive come luogo culturale.

“In questo mese di ottobre nel quale cade il centenario della Marcia su Roma, che dette inizio alla dittatura fascista, tocca proprio ad una come me assumere momentaneamente la presidenza di questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica”. Così la senatrice a vita Liliana Segre nel discorso che ha aperto la XIX legislatura repubblicana. Un discorso di antifascismo mite, nel quale ha inserito una toccante memoria personale, efficace anche narrativamente: la piccola ebrea scacciata allora dal suo banco a scuola, accolta oggi dagli applausi sul banco più prestigioso del Senato. Mite anche nell’invito a una dialettica politica senza violenza, senza ingiurie. Applausi forti, anche se non unanimi; quando i richiami ad un passato disonorevole sono stati diretti, si sono visti senatori dell’estrema destra applaudire fiaccamente o restare addirittura seduti e fermi. Ci sono modi più dignitosi di manifestare dissenso.

Sul fascismo storico, quello che ebbe ufficialmente inizio nel 1919 a Milano (piazza Sansepolcro) con la fondazione dei fasci di combattimento, o nel 1922 a Roma con la famigerata Marcia, circola una vulgata di destra che lo disegna come un’ideologia in fondo benevola che solo alcune dure circostanze sospingeranno, anni più tardi, verso l’infamia delle leggi razziste e la criminale decisione di entrare in guerra a fianco della Germania di Hitler. Sembra più vicina alla vera storia la tesi opposta, quella che descrive un fascismo violento fin dalla nascita, un movimento che uccide o toglie comunque di mezzo i suoi avversari. Don Giovanni Minzoni ucciso a randellate su diretto mandato di Italo Balbo; Giovanni Amendola aggredito e percosso; i due fratelli Rosselli, Carlo e Nello, assassinati in Francia; Antonio Gramsci rinchiuso in una galera e liberato solo alla vigilia della morte. “Bisogna impedire a quel cervello di funzionare per almeno vent’anni”, aveva gridato il pubblico accusatore durante il suo processo, maggio 1928. Non ci riuscì; anche in carcere quel cervello continuò invece a funzionare consegnando alle generazioni a venire una serie di Quaderni oggetto ancora oggi di studio. Piero Gobetti, genio precoce di saggista ed editore, morto a Parigi a 26 anni a seguito delle botte avute dai fascisti torinesi. Una delle più brillanti intelligenze della sua generazione, miope e di fragile costituzione; non ci volle una gran fatica per ucciderlo. Era solo mentre in tre si accanivano su di lui.

Fin da quando militava come estremista socialista, Mussolini non aveva mai nascosto il suo disprezzo per la borghesia, tanto più se “illuminata”. Definiva il liberalismo democratico “una categoria morale, uno stato d’animo”. Nel marzo 1923 aveva scritto su Gerarchia: “Gli uomini sono forse stanchi di libertà. Ne hanno fatto un’orgia. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciarono al crepuscolo mattinale della nuova storia, ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, sono: ordine, gerarchia disciplina”.

Al centro del suo discorso, Liliana Segre ha posto la Costituzione, citandola più volte, legandola anche alla memoria di Giacomo Matteotti, il deputato socialista assassinato nel 1924 per ordine di Mussolini. Richiamando Piero Calamandrei, Segre ha ricordato che la Costituzione: “Non è un pezzo di carta, ma il testamento di centomila morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel settembre del 1943 ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti”.

Non viene ricordato spesso Matteotti, anche il piccolo monumento a lui dedicato sul Lungotevere (nel luogo in cui venne rapito dai suoi assassini), appare trascurato, asfissiato dal traffico. Bene ha fatto Liliana Segre a richiamare un uomo che Mussolini non solo volle morto ma della cui uccisione, con spavalda aggressività, si attribuì bell’aula di Montecitorio la responsabilità: “Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere”.

Durante la breve e concitata campagna elettorale appena finita, c’è chi ha disapprovato il richiamo all’antifascismo e alla Resistenza, qualcuno lo ha considerato inopportuno in un momento attraversato da immense tragedie e urgenti necessità. Si dimentica così che il fascismo non richiama solo un regime politico, incarna una cultura, un modo di concepire i rapporti tra gli individui e i sessi, l’organizzazione d’una collettività, la gestione del dissenso. Nel suo saggio La nazionalizzazione delle masse, lo storico Georg L. Mosse scrive proprio questo quando vede l’attualità del fascismo non come una realtà di regime che può ripetersi ma come una macchina politica ancora in grado di generare opinioni, convinzioni, comportamenti. In questo senso il passato non è mai definitivamente alle spalle. Il fascismo-regime è morto nel 1945, sopravvive però come luogo culturale. Possiamo anche considerarlo una latente “autobiografia della nazione” - come lo definiva Piero Gobetti.