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di Michela Marzano

La Stampa, 2 giugno 2022

Oggi si celebra la Giornata internazionale dei Peacekeeper, i “mantenitori della pace”, istituita dall’Onu nel 2003 in ricordo del 29 maggio del 1948, quando venne inaugurata la prima operazione di peacekeeping delle Nazioni Unite in Palestina e nacque l’United Nations Truce Supervision Organization (Untso).

Da allora, ogni 29 maggio, si rende omaggio a tutti coloro che si sono impegnati o continuano a impegnarsi, per salvaguardare la pace nel mondo. Oggi però, tre mesi dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, la celebrazione della giornata internazionale dei Peacekeeper assume un’importanza particolare. Anche perché sono stati molti i pacifisti italiani che, quando sono scoppiate le polemiche per l’invio delle armi in Ucraina, hanno invocato la necessità di ricorrere a una missione di peacekeeping.

“L’unico intervento possibile è il peacekeeping”, ha dichiarato Francesco Vignarca, il coordinatore delle campagne di “Rete italiana Pace e Disarmo”, l’indomani della decisione presa dal Governo di inviare le armi agli ucraini. Subito prima di aggiungere: “Armare gli oppositori di Gheddafi ha portato la pace in Libia? E in Siria? In Afghanistan? E dovrebbe funzionare con Putin? Non solo è sbagliato eticamente, ma non ottiene il risultato voluto”.

Ma le cose sono più complicate di quanto pensi Vignarca. Le azioni di peacekeeping dell’Onu, infatti, vengono decise dal Consiglio di sicurezza e la Russia, che ne è membro permanente, ha diritto di veto. E anche se è stata recentemente adottata una risoluzione che obbliga i membri permanenti a giustificare il proprio utilizzo del diritto di veto, si tratta pur sempre di una risoluzione non vincolante. Per non parlare poi del fatto che, subito prima dell’inizio della guerra, era stato Putin stesso a parlare di un’operazione di peacekeeping nel Donbass.

Lo scopo dei “caschi blu”, come vengono chiamati i militari, gli agenti delle forze dell’ordine e i civili che partecipano alle missioni di mantenimento della pace, è quello di proteggere e promuovere i diritti umani attraverso una serie di interventi che vanno dalla prevenzione dei conflitti al mantenimento della pace, passando per l’assistenza umanitaria. E molti sono stati nel passato i successi di questo tipo di missioni, soprattutto alla fine della guerra fredda - basti pensare al raggiungimento della pace in Mozambico e in El Salvador. Ma in Ruanda e nell’ex-Jugoslavia, tanto per dare altri esempi, la presenza dei caschi blu non è servita. Anzi. Il genocidio ruandese del 1994 e il massacro di Srebrenica del 1995 hanno mostrato bene come le missioni di peacekeeping sono destinate a fallire.

Bene, allora, celebrare la Giornata internazionale dei Peacekeeper. Ma è inutile illudersi che una missione di peacekeeping possa oggi risolvere il dramma in Ucraina. Ragioni e sentimenti sembrano ancora una volta opporsi. Tanto più che, una decina di giorni fa, l’ambasciatrice americana all’ONU ha escluso la possibilità di una partecipazione USA a un’eventuale missione. Gli Stati Uniti sono pronti a difendere i Paesi membri della Nato, ma non sono disposti a schierare le proprie truppe in Ucraina, nemmeno per un’operazione volta a ristabilire la pace. -