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di Enrico Di Croce* e Stefano Naim**

quotidianosanita.it, 7 febbraio 2024

Gentile Direttore, quando si parla - come di recente noi abbiamo fatto - di temi come la non imputabilità per infermità di mente non c’è dubbio, bisogna tener conto della loro complessità. E delle distorsioni che creano le visioni semplificatorie. Un esempio, di drammatica attualità, ce lo offre il tema dei suicidi nei luoghi di detenzione. Pochi giorni fa un autorevole deputato, capogruppo alla Camera dichiara: “Un detenuto, dimesso da pochi giorni dal reparto psichiatrico, ieri ha deciso di impiccarsi. I malati psichici non dovrebbero stare in carcere (…) Andrebbero inseriti in Rems, strutture sanitarie di accoglienza per chi commette reati ma è affetto da disturbi mentali”. A ruota, un’altra deputata afferma che bisogna “togliere dal carcere coloro che non devono starci, perché affetti da malattie psichiatriche, a volte anche gravi”.

È molto importante analizzare le implicazioni di simili dichiarazioni, a volte strumentali, altre animate da intenzioni sincere, e che tuttavia, nella loro “semplificazione”, nascondono terribili insidie. Nessuno direbbe: “I malati di cancro non devono stare in carcere”. Tutti ritengono i malati oncologici persone uguali alle altre e che, come tali, vadano scarcerati se le loro condizioni diventano incompatibili con la detenzione. Ai sofferenti psichici, invece, si assegna una categoria giuridico-antropologica a parte: essi, in quanto tali, non dovrebbero stare in carcere. La “radice” giuridica di questa visione sta negli articoli 88 e 89 del codice penale, che regolano la non punibilità per infermità di mente: un soggetto che compie un reato, ma che viene assolto per incapacità di intendere e volere, per legge non viene imputato né punito, ma viene curato.

Parliamo di un principio umano e doveroso. Ma è corretto usarlo per escludere lo strumento della pena? È significativo che i deputati, nel proclamare la loro tesi (“niente carcere, ma strutture dedicate”) non la limitino ai non imputabili, ma la allarghino a chiunque, a vario titolo, abbia una diagnosi psichiatrica.

Analoghe, e altrettanto pericolose “semplificazioni” gli psichiatri le affrontano davanti a magistrati, forze dell’ordine, autorità locali: comportamenti violenti, antisociali, che generano allarme arrivano ogni giorno davanti a noi perché giudicati di matrice psichiatrica o perché, semplicemente, attuati da persone che sono anche portatrici di una qualche diagnosi di disturbo mentale. Soggetti che - in questa visione - non devono incontrare il limite imposto dalla legge, ma solo ricevere strumenti terapeutici: ai quali, si capisce, si richiede l’obiettivo di neutralizzare la pericolosità.

Questa crescente (e sempre meno tollerabile) pretesa di sanitarizzare questioni di ordine pubblico sta ricacciando gli psichiatri nel ruolo di “sentinelle” dell’ordine sociale. E come la storia insegna, una psichiatria che fa igiene sociale - oltre che eticamente irricevibile - produce effetti nefasti: stigmatizza i pazienti, li declassa a “non-cittadini”, li deresponsabilizza (“scollandoli” dalle loro azioni) ne induce la cronicizzazione.

Il giorno stesso delle dichiarazioni dei deputati, il suicidio in un CPR di Roma di un 22enne cittadino della Guinea potrebbe spingerci a interrogarci sulla complessità delle vicende umane che inducono un giovane a togliersi la vita. Di certo, è inaccettabile la semplificazione che le riconduce esclusivamente a un disturbo psichico (non di rado assente) e alla carenza di strutture dedicate a chi è affetto da “patologia” mentale (o luoghi, piuttosto, deputati a isolare la “sofferenza” e contenere la “devianza” umana?)

Chi, come noi, vuole limitare le assoluzioni per infermità di mente certo non invoca il carcere per chi soffre di patologia psichica grave (un’aberrazione, grave, dei Paesi in cui manca un’adeguata assistenza psichiatrica). Al contrario, mira a restituire alla psichiatria una funzione di cura e ai suoi pazienti lo status di persone con uguali diritti e doveri, compreso quello, ineludibile, di rispondere delle loro azioni: dal momento che, senza responsabilizzazione, è precluso il fondamento stesso della cura.

Chiedere, perciò, di restringere la non imputabilità per infermità di mente non significa semplificare. Significa, al contrario, impedire che - più o meno sottaciuti - “bisogni di semplificare” una realtà sociale sempre più complessa possano scaricarsi sulla Salute Mentale. Significa opporsi alla manipolazione della psichiatria, da strumento di cura a pratica di contenzione dei bisogni delle persone. Significa, infine, evitare che essa scompaia sotto il peso soffocante - e intollerabile - dei rischi penali addossati sugli psichiatri. Poiché se essi sparissero quella no - la società lo scoprirebbe - non sarebbe una gran semplificazione.

*Psichiatra, ex Dsm Asl TO 4

**Psichiatra, Dsm Asl Modena