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di Luigi Manconi

La Stampa, 18 luglio 2022

Italia e Ue continuano a trattare l’assassinio dello studente come “un tragico fatto umanitario”. In queste ore sono in molti a ribadire un ferreo sillogismo: 1. La politica estera dell’Italia è fatta dall’Eni; 2. L’Eni ha enormi interessi in Egitto; 3. L’Italia non avrà mai l’autonomia e la determinazione necessarie per perseguire verità e giustizia a proposito della morte di Giulio Regeni, barbaramente trucidato nel territorio di un così importante partner economico. Vero, ma solo parzialmente.

In altre parole, è incontestabile che la politica estera dell’Italia risulta condizionata in profondità dal sistema di relazioni finanziare, economiche e politiche che intercorrono con il regime dispotico di al-Sisi. Ed è facile constatare che il nostro paese è influenzato - in particolare dopo “la crisi del gas” - dal ruolo geo-strategico svolto dal Cairo.

E, ancora, che la funzione dell’Egitto come presidio politico-militare nei confronti dello Stato islamico e, prima e dopo, come argine rispetto ai grandi flussi migratori, ha costretto l’Italia in una condizione di subalternità. Ma, concesso tutto questo, come spiegare un atteggiamento tanto rinunciatario e remissivo del nostro paese in una crisi diplomatica acuta come quella apertasi dopo il rapimento, le torture e l’assassinio di Giulio Regeni?

Due le possibili interpretazioni. La prima: l’Italia, nel corso dei sei anni trascorsi dall’omicidio di Regeni, ha manifestato una sorta di senso di inferiorità nei confronti dell’Egitto. L’incapacità, cioè, di comprendere come quella morte, avvenuta in terra straniera e con il coinvolgimento di servizi di sicurezza stranieri, non rappresentasse soltanto uno strazio irreparabile per famiglia e amici, ma anche uno smacco per l’Italia. Ovvero un pesante oltraggio per la nostra sovranità nazionale e per la nostra indipendenza di stato democratico. Si aggiunga che, quando Regeni venne torturato e ucciso, nel nostro ordinamento giuridico non era ancora stato introdotto il reato di tortura, nonostante che l’Italia avesse ratificato la relativa convenzione internazionale già ventotto anni prima (giusto l’età del ricercatore italiano).

Per chi, come me, crede che “le istituzioni pensano” (Mary Douglas), non è assurdo ipotizzare che l’Italia abbia avuto una qualche difficoltà, come dire?, psicologica a esigere la ricerca e la punizione dei torturatori, non avendo le carte in regola a sua volta. Seconda considerazione: l’Italia come, ahinoi, tutti gli stati democratici, sottovaluta la questione della tutela dei diritti universali della persona.

Ne consegue che, quando - e accade raramente - nelle relazioni sovranazionali viene posto il tema dei diritti umani, esso slitta fatalmente all’ultimo posto dell’ordine del giorno degli incontri bilaterali, dei colloqui tra gli stati, delle assemblee generali delle istituzioni mondiali. E, su questo, i governi italiani che si sono succeduti dal 2016 hanno rivelato tutta la loro impotenza: mai si è riusciti a internazionalizzare la crisi diplomatica apertasi con l’assassinio di Regeni. Mai se n’è fatta materia di una controversia politica, capace di aggregare consensi intorno alla chiamata in causa dell’Egitto come regime che viola sistematicamente i diritti umani; mai si è creata - e nemmeno si è tentato di creare - un’alleanza tra democrazie europee, e non solo europee, per chiedere conto di quelle migliaia e migliaia di egiziani che hanno subìto la stessa sorte di Regeni.

Gli atti del Parlamento europeo sono stati esili e flebili, affidati alla buona volontà di alcuni; la Commissione europea ha sostenuto - sono in grado di darne testimonianza - che la vicenda non fosse di sua “pertinenza”. E i successivi governi italiani hanno accettato, pressoché supinamente, questo stato di cose, in nome di un realismo politico che si è rivelato, più che una strategia, un povero alibi. Dietro a tutto ciò c’è quell’idea prima accennata: l’assassinio di Regeni come “un tragico fatto umanitario” o un incidente inevitabile all’interno di regioni del mondo dove dominano il disordine e l’insicurezza.

Mentre il ruolo avuto dalla National Security Agency, il boicottaggio delle indagini messo in atto dalla procura del Cairo e il comportamento aggressivo del regime, insultante nei confronti del nostro connazionale e sprezzante verso le istituzioni italiane dicono chiaramente che, oltre alla persona di Regeni, è stata la nostra dignità nazionale a subire un gravissimo attentato. Ed è la dignità di un popolo e dei suoi organismi a costituire il fondamento della sovranità dello Stato. Di fronte a tanto sfacelo restano due elementi positivi.

Innanzitutto, il grande e intelligente lavoro svolto dalla procura di Roma col contributo essenziale dei reparti investigativi specializzati di carabinieri e polizia di Stato. E poi, il messaggio incancellabile trasmesso da Paola e Claudio Regeni, genitori di Giulio. Sono stati loro a far sì che quella che si sarebbe potuta considerare “una vicenda privata” diventasse una grande questione pubblica. Sono stati loro che, rinunciando a riservare il loro lutto esclusivamente alla sola sfera più intima, hanno consentito che si affermasse come grande tema civile. Sono stati loro, posso dirlo?, a salvare l’onore dell’Italia. Che non è declamazione retorica bensì consapevolezza dell’identità di un’organizzazione sociale e di una comunità di persone libere.