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di Paolo Pandolfini

Il Riformista, 19 dicembre 2023

Il 2023, purtroppo non è una novità, è destinato a chiudersi in maniera drammatica per chi è sottoposto al regime carcerario. Oltre al numero, anche quest’anno terribilmente elevato, di coloro che hanno deciso di togliersi la vita, sono tante le storie di violenza e degrado dietro sbarre che evidenziano ancora una volta l’assoluta disumanità con cui viene espiata la pena.

Fra le tante storie, due meritano però di essere raccontate. La prima arriva dal carcere di Oristano dove, ad ottobre dello scorso anno, è deceduto il 44enne romano Stefano Dal Corso. Inizialmente si pensò ad un suicidio, ma, secondo un super testimone che il mese scorso ha fatto riaprire il caso, si sarebbe trattato invece di un assassinio. Dal Corso sarebbe morto infatti dopo la rottura dell’osso del collo con una spranga e due colpi di manganello, come riportato da Repubblica a cui questo testimone avrebbe inviato una mail scrivendo di avere le prove.

All’ipotesi del suicidio, comunque, non avevano mai creduto la sorella Marisa Dal Corso e l’avvocata Armida Decina. Dal Corso, secondo gli atti, si sarebbe impiccato usando come cappio un lenzuolo tagliato con un taglierino di cui però non era mai stata trovata traccia nella cella. Le grate della finestra a cui era appeso il lenzuolo, inoltre, sarebbero state troppo basse per essere utilizzate per un’impiccagione. La cella, infine, era stata trovata in perfetto ordine, con il letto rifatto. E poche settimane prima di uscire dal carcere Dal Corso aveva detto alla figlia e alla compagna di voler ricominciare con loro una nuova vita. L’uomo si trovava nel carcere sardo per assistere a un processo che lo riguardava. La Procura all’epoca non aveva ritenuto necessario disporre l’autopsia, né aveva voluto ascoltare gli altri detenuti.

Il testimone sembra abbia anche parlato con la sorella della vittima sostenendo di essere in possesso di un video che immortalerebbe l’aggressione e dei vestiti che Dal Corso indossava quel giorno. “Hanno modificato le relazioni, hanno cambiato medico legale, hanno vestito tuo fratello con indumenti messi a disposizione della Caritas e hanno fatto sparire quelli sporchi di sangue con le prove e le impronte”, avrebbe detto. Quel giorno Dal Corso aveva “aperto la porta dell’infermeria e assistito a un rapporto sessuale tra due operatori del carcere. È stato cacciato via e ha fatto ritorno nella sua cella”. Poi “schiaffi, calci, pugni”, scrive La Repubblica citando questo supertestimone il quale “prosegue la narrazione che termina con la morte di Stefano e con il tentativo di coprire l’omicidio”.

L’altra storia arriva dall’Ungheria e ha come protagonista Ilaria Salis, 39 anni, maestra elementare, rinchiusa da quasi un anno in un carcere di massima sicurezza a Budapest perché accusata di aver aggredito due neonazisti. In questi giorni si sta mobilitando la famiglia che ha cercato, fino a questo momento, senza successo di farsi aiutare dalle istituzioni per sbloccare la situazione. Il padre della docente ha scritto alla premier Giorgia Meloni, al Guardasigilli Carlo Nordio, al ministro degli Esteri Antonio Tajani, ai presidenti di Senato e Camera, Ignazio La Russa e Roberto Fontana, per un intervento diplomatico a tutela dei diritti della figlia, ma finora nulla è cambiato. “Quando la trasferiscono per le udienze viene trattata come un cane. Tenuta al guinzaglio da un poliziotto, mani e piedi legati con una catena. Ridotta così deve fare quattro rampe di scale. Per più di un mese, dopo l’arresto, ha dovuto indossare gli stessi vestiti e la stessa biancheria. Non le hanno nemmeno dato i farmaci per l’allergia scatenata dalle cimici nel letto”, ha detto il padre.

La donna rischia 16 anni di carcere per tentato omicidio ed è accusa di aver fatto parte del gruppo che ha provocato a due uomini lesioni guarite in 5 e 8 giorni. I fatti risalgono alla vigilia del “Giorno dell’onore”, in tedesco: Tag der Ehre. Ogni 11 febbraio neonazisti provenienti da tutta Europa lo celebrano proprio a Budapest per ricordare il battaglione della Wehrmacht che tentò di rompere l’assedio della città ma fu annientato dall’Armata Rossa.

“Non è anarchica e non fa parte di Hammerbande, il gruppo tedesco che promuove assalti contro i neonazisti. Ho letto le 800 pagine dell’inchiesta di Lipsia su Hammerbande e il nome di Ilaria non esce mai. È un’insegnante di scuola elementare e un’antifascista vera, militante. E io di questo sono orgoglioso. Passo il tempo a tradurre dall’ungherese gli atti d’indagine, perché non ce li hanno dati in italiano”, ha aggiunto il padre. Il prossimo 29 gennaio è in programma la prima udienza del processo. Si spera celebrato nel rispetto del diritto di difesa.