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di Federico Rampini

Corriere della Sera, 14 ottobre 2023

È difficile distinguere tra complicità ideale e pianificazione dell’attacco. Ma chi aveva più da guadagnarci? Dopo l’11 settembre 2001 Bush proclamò “l’equivalenza tra i terroristi e i governi degli stati che li appoggiano”. Dopo l’11 settembre 2001 l’America di George W. Bush affermò un principio: l’equivalenza tra i terroristi e i governi o gli Stati che li appoggiavano. Una nazione colpevole di aver protetto e foraggiato Al Qaeda meritava lo stesso tipo di castigo dell’organizzazione terroristica che aveva materialmente organizzato gli attentati. Fu così che l’America andò in guerra in Afghanistan, per punire e rovesciare il regime dei talebani che aveva dato ospitalità e sostegno a Osama Bin Laden e ai suoi uomini.

Se davvero questo è stato “l’11 settembre d’Israele”, Benjamin Netanyahu dovrebbe colpire non solo Hamas, ma anche l’Iran che lo ha armato e guidato? Le prove del sostegno iraniano per adesso vengono maneggiate con cautela dal governo Netanyahu e dall’Amministrazione Biden. Si capisce perché. Israele non è l’America, non sarebbe saggio impegnarsi in una guerra su troppi fronti dopo la terribile batosta subita. L’Iran non è l’Afghanistan, la sua potenza militare è assai superiore ed è vicinissimo ad avere armi nucleari, se non le ha già.

Questo obbliga a porsi la domanda: che cosa vuole l’Iran? Quale calcolo strategico ha spinto il regime degli ayatollah a dare il suo sostegno e la sua regìa alla più feroce delle offensive di Hamas? Perché adesso? Dopotutto, in tempi recenti da Teheran erano giunti segnali di tipo diverso. Con la mediazione diplomatica della Cina, il governo iraniano aveva ristabilito relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita, la rivale storica numero uno. Con il recente accordo per liberare ostaggi americani dalle carceri iraniane, in cambio dello scongelamento di 6 miliardi di dollari bloccati dalle sanzioni, Teheran aveva perfino segnalato un inizio di distensione con l’Amministrazione Biden. Alla luce di queste mosse era parso che la teocrazia sciita volesse uscire dal suo isolamento, per inaugurare rapporti più normali con i propri vicini e con l’Occidente. I tragici eventi di Gaza contraddicono quella lettura. O almeno costringono ad aggiungervi delle importanti correzioni.

Noi di solito ci occupiamo dell’Iran per denunciare gravi abusi contro i diritti umani, soprattutto contro le donne, perpetrati dal regime. Ma parlare di “isolamento” di Teheran è una nostra distorsione. L’Iran ha continuato a rafforzare le sue relazioni economiche, finanziarie e militari con Cina e Russia: in quel mondo, sempre più antagonista all’Occidente, non è isolato anzi è un membro rispettato e riverito. La Cina lo ha sponsorizzato come nuovo membro dei Brics in occasione dell’allargamento di quel club di Paesi emergenti. Non sono mai cessate le forniture di petrolio iraniano alla Cina, e i due Paesi fanno un uso crescente del renminbi in sostituzione del dollaro (che è proibito all’Iran con le sanzioni). È noto inoltre il ruolo dei droni iraniani negli attacchi russi contro l’Ucraina.

Per Russia e Cina i vantaggi da una nuova guerra in Medio Oriente sono evidenti: si apre un secondo fronte che obbliga l’America a venire in aiuto a un secondo alleato aggredito. Dopo l’Ucraina, ora Biden deve ripartire delle risorse scarse indirizzandone una parte verso Israele. “Risorse scarse” in due sensi. Anzitutto perché gli arsenali americani già soffrivano di scarsità, per esempio nelle munizioni richieste dalle forze ucraine. Secondo, le risorse militari americane sono soggette a una scarsità di tipo politico: sull’appoggio all’Ucraina c’erano vistose defezioni in campo repubblicano, sul sostegno a Israele Biden deve fare i conti con la sinistra democratica filo-palestinese. In conclusione, il duo Iran-Hamas ha fatto un regalo a Putin aprendo un fronte che distrae l’America dall’Ucraina; un regalo pure a Xi Jinping perché quest’America ha meno attenzione e risorse da destinare all’Estremo Oriente.

L’Iran oltre a favorire i propri alleati ha poi un interesse strategico in proprio, in questa vicenda. L’accordo che veniva dato imminente, per il riconoscimento diplomatico d’Israele da parte dell’Arabia Saudita, va sabotato ad ogni costo perché può consolidare un asse israelo-sunnita, un cordone sanitario anti-Iran. Di più: quell’accordo stava maturando in una triangolazione con gli Stati Uniti, che avrebbero offerto come compenso al principe saudita Mohammed bin Salman (MbS) una protezione militare, e perfino una cooperazione in campo nucleare. Di recente MbS ha definito “inaccettabile” che l’Iran diventi una potenza nucleare. Poiché è chiaro che l’Iran sta per diventarlo, se non lo è già, Riad vuole pareggiare il conto.

Ora, lo spettacolo delle vittime civili tra i palestinesi quando l’esercito israeliano inizia l’occupazione di Gaza, renderà più difficile per MbS riconoscere lo Stato d’Israele. MbS è un autocrate però è sensibile allo stato dell’opinione pubblica nel suo Paese, nel mondo arabo, nella comunità sunnita mondiale di cui la sua nazione è una guida come custode dei luoghi sacri dell’Islam. Anche negli Stati Uniti per Biden sarà più arduo fare approvare dal Congresso una protezione militare dell’Arabia, se MbS si schiera con i palestinesi. La grande svolta storica, la riconciliazione arabo-israeliana, diventa molto più complicata. Questo è un vantaggio strategico per l’Iran.

Il regime degli ayatollah pagherà dei prezzi su molti terreni, a cominciare da quello economico, se i tenui segnali di distensione con l’Occidente vengono spazzati via dalla tragedia di questi giorni. Che riflessi può avere questo su un consenso interno già precario? In occasione di un mio viaggio in Iran ricordo di aver sentito molte lamentele di cittadini iraniani contro un regime che “spreca i nostri soldi nelle guerre arabe”, mentre la popolazione langue nella povertà. Ma non è la prima volta che un regime in difficoltà con il proprio consenso interno sceglie l’escalation di tensioni internazionali e la militarizzazione. Anzi, è un caso da manuale su come sopravvivono i sistemi autoritari.