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di Daniele Zaccaria

Il Dubbio, 3 novembre 2023

No, i musulmani non sono tutti dei fanatici ma le prime vittime del fondamentalismo. Lo scorso 16 ottobre, nove giorni dopo i sanguinosi pogrom di Hamas, Wadea Al-Fayoume bambino palestinese di appena sei anni viene trucidato con 26 coltellate da uno squilibrato nella periferia di Chicago. Arrestato dalla polizia, l’uomo ha affermato di aver reperito le sue vittime per la fede musulmana e la provenienza palestinese in risposta agli attacchi dell’organizzazione islamista.

Se la nuova guerra tra Israele e Hamas, come un enorme detonatore, sta provocando una ferale ondata di antisemitismo, questo vale anche per un pregiudizio speculare e di segno opposto: l’islamofobia. Assimilare tutti gli ebrei alle politiche nazionaliste del governo Netanyahu non è in effetti molto diverso dal credere che ogni palestinese, anzi, che ogni musulmano, sia in qualche modo contiguo al terrorismo jihadista o comunque al fondamentalismo religioso. A differenza dell’antisemitismo, pregiudizio millenario e pieno di stratificazioni storiche, l’islamofobia è un fenomeno relativamente moderno e in piena espansione.

Il punto di svolta sono stati gli attentati dell’11 settembre 2001; prima d’allora il termine islamofobia era stato impiegato in modo saltuario e non sistematico da qualche pubblicazione accademica di studi coloniali e appare una sola volta in Orientalism, il monumentale saggio di Edward Said che racconta la storia delle civiltà orientali attraverso lo sguardo paternalista del mondo occidentale. Nel 1997 il termine è impiegato in un rapporto del think-tank britannico Runnymede Trust che segnalava la diffidenza crescente dei cittadini inglesi nei confronti della comunità musulmana.

Ma è solo dopo l’attacco di al Qaeda a Torri gemelle e Pentagono, la successiva “guerra infinita” dell’amministrazione di George W. Bushe dei suoi rasputin neocon e la conseguente vague di attentati jihadisti dei primi anni duemila che l’islamofobia entra a titolo permanente nel corredo dei nostri pregiudizi nonché delle cronache quotidiane. Tra il 2000 e il 2001 negli Stati Uniti gli atti d’odio verso i musulmani sono aumentati del 1600% una tendenza che ha coinvolto in forme più o meno acute, più o meno discriminatorie, un po’ tutte le nazioni democratiche dove la paura o l’avversione dell’islam sono lievitate senza controllo. È la “globalizzazione dell’islamofobia” per impiegare le parole di Khaled Ali Beydun professore di diritto alla Wayne State School of Law del Michigan. Mettendo da parte la propaganda della destra identitaria e cristiana, che individua nell’immigrazione musulmana un pericolo per la nostra stessa civiltà, la deriva islamofoba dell’Occidente è avvenuta in forme subdole e mimetiche, per esempio attraverso le rappresentazioni dei media impastate con il peggior senso comune per cui ogni famiglia musulmana, sotto sotto, sarebbe un’incubatrice di integralismo violento e misogino.

Prendiamo la Francia, il paese europeo in cui i conflitti comunitari sono più accesi: nel solo 2022 si sono registrati oltre 600 atti islamofobici tra discriminazioni, incitamento all’odio, insulti, sfregio dei luoghi di culto, minacce e aggressioni fisiche. In quell’anno peraltro si sono svolte le elezioni presidenziali con una campagna elettorale in buona parte incentrata sul pericolo islamico, e l’emergenza radicalizzazione tra i giovani delle banlieues.

Non dimentichiamo che la Francia è stato anche l’obiettivo principe per la seconda ondata di terrorismo jihadista, quella legata all’insorgenza dello Stato islamico (Isis), basti pensare alle stragi dei vignettisti di Charlie Hebdo, del supermercato ebraico, del Bataclan e del lungomare di Nizza, e questo ha ingigantito le rappresentazioni distorte dell’Islam nonché la stessa risposta delle autorità. Come definire, se non attraverso l’islamofobia, il divieto di indossare il burquini sulle spiagge francesi o quello più recente di portare l’alabaya (che peraltro non è un simbolo religioso) nelle aule scolastiche? O come catalogare l’esclusione dei musulmani a dai principali centri di potere, politico, economico, culturale, pur essendo cittadini a pieno titolo. O l’uso spropositato della forza da parte della polizia verso i giovani di origine maghrebina delle periferie.

L’ultimo episodio lo scorso luglio a Nanterre, sobborgo a nord di Parigi, quando il 17enne Nahel M viene freddato con un colpo alla nuca per non essersi fermato a un posto di blocco con il suo scooter. Un omicidio che ha scatenato settimane di guerriglia urbana nelle banlieues, con migliaia di arresti e centinaia di feriti, un film che nel corso degli anni si ripete sempre uguale a se stesso. E che rischia di arricchirsi di nuovi poco edificanti capitoli.