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di Fulvio Fulvi

Avvenire, 22 dicembre 2022

Il gesto di clemenza che Papa Francesco ha chiesto ai potenti della terra, ai capi di Stato e di governo, è un “grido di misericordia verso i detenuti, ma anche un messaggio alla società e alla Chiesa, un appello di fiducia e speranza, un’attenzione vera ai più poveri, agli ultimi”.

Le parole di don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani carcerari d’Italia, sono quelle di chi l’esperienza dell’incontro sempre lacerante e drammatico con le persone private della libertà la fa tutti i giorni, visitando gli oltre 190 istituti di pena italiani, partecipando a convegni, coordinando l’attività pastorale dei sacerdoti che nelle carceri svolgono il loro compito di evangelizzazione e catechesi. Incominciò a stare vicino ai detenuti (e alle guardie carcerarie) nel 1992, come giovane cappellano della Casa Circondariale di Napoli-Secondigliano.

Ma come è possibile, secondo lei, dare seguito in concreto all’appello del Papa?

“C’è chi potrebbe essere fatto uscire subito dal carcere con un provvedimento di indulto. Parliamo dei detenuti che devono scontare una pena breve o che stanno dentro per aver compiuto reati minori. E in genere sono i più poveri, gli immigrati, i malati psichici, i tossicodipendenti e le persone senza dimora. Chi si è reso responsabile di gravi crimini, invece, deve scontare la condanna fino in fondo. Non si chiede clemenza per loro”.

In ogni caso, la situazione delle carceri italiane è difficile da gestire. C’è l’emergenza dei suicidi in cella, sono 82 quelli che si contano dall’inizio dell’anno, e degli atti di autolesionismo compiuti dai reclusi, sempre più diffusi. Perché?

“Il problema principale è sempre quello: il sovraffollamento. In più, i servizi diminuiscono perché il personale è insufficiente e gli agenti penitenziari, come anche i volontari, e gli stessi cappellani, non riescono a raggiungere tutti i detenuti. Esistono, inoltre, anche gravi carenze sanitarie. I suicidi avvengono perché, in genere, viene rivolta poca attenzione a chi sta male dietro le sbarre. Troppo spesso si uccide chi è alla vigilia della liberazione e ha paura di uscire perché non sa dove andare, non ha una famiglia, non ha amici né altri affetti, non ha una casa dove andare né un lavoro. E così si lascia travolgere dalla disperazione. Ma questa è una responsabilità di tutti”.

E quale ruolo devono svolgere i cappellani in questo contesto fatto di paure e dubbi?

“Dobbiamo adoperarci perché i detenuti si lascino accarezzare da Dio. Ma i sacerdoti, insieme a chi svolge volontariato, hanno una missione umanitaria da compiere, di vicinanza concreta ai carcerati. Anche se gli ostacoli che troviamo, spesso sono parecchi e appaiono insormontabili. Qualche volta sembra che noi vogliamo inserirci nei percorsi di riabilitazione, nei progetti dell’istituto, ma non è così. Dobbiamo invece far capire ai detenuti che possono contare sempre su di noi, che siamo loro amici. E ci proponiamo anche come ponte con le loro famiglie. Cerchiamo inoltre di riconciliare le persone e di incontrare umanamente anche i detenuti di altre fedi quando non possono trovare dietro le sbarre un imam o un sacerdote ortodosso che pure hanno un accesso sporadico nelle carceri italiane. Io vado incontro ai carcerati come un uomo e cerco di accogliere tutti, e così svolgo anche un’azione pastorale”.

Non è sempre facile, però....

Tante volte siamo ostacolati e non possiamo svolgere serenamente il nostro servizio. Non certo perché non siamo apprezzati ma perché, mancando personale, come dicevo, non si può garantire quell’attenzione e vigilanza in più che invece sarebbe necessaria, per esempio quando celebriamo le Messe nelle cappelle. Non ci sono agenti per i controlli necessari e a volte dobbiamo rinunciarci.