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di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo

Il Dubbio, 11 ottobre 2023

L’ormai nota ordinanza Cedu sul caso Cavallotti/Italia, pone al Governo - tra gli altri - il quesito se la confisca di prevenzione, prevista dall’art. 24 del D.L.vo 159/11, sia da considerarsi una “sanzione penale di punizione” ovvero una pena, alla luce della sua funzione e natura, nonché dei suoi presupposti applicativi. È una domanda che sembra finalmente squarciare il velo dell’ipocrisia che qualifica tale confisca non come actio in rem, ma come mezzo di natura preventiva e ripristinatoria.

Natura decisamente stravolta dalla possibilità di confiscare beni non solo intrinsecamente non suscettibili di affermazioni di pericolosità, ma anche appartenenti a soggetti per i quali non è più possibile formulare un giudizio di futura proclività al delitto.

Svincolare l’ablazione dalla necessità di - propria di tutte le misure praeter delictum - di sottrarre al singolo gli strumenti di affermazione della propria asocialità, ha inevitabilmente eroso gli ambiti di tutela del diritto di proprietà che, pur non assistito dalla riserva di giurisdizione, è tuttavia costituzionalmente garantito. Mortificarlo “off label”, non per le funzioni preventive proprie del sistema, ma in ottica stigmatizzante di comportamenti passati, significa annettere a tale ablazione natura spiccatamente sanzionatoria.

Eppure, la qualificazione della confisca di prevenzione come sanzione è stata sempre esclusa tanto dalla giurisprudenza convenzionale, quanto da quella domestica. Ed anche la Corte Costituzionale, chiamata ad intervenire a seguito della sentenza De Tommaso/Italia, ha fatto leva sulla sua natura non punitiva, ma ripristinatoria, finalizzata ad apprendere beni che sono stati acquisiti illecitamente e dunque sulla base di un atto di acquisto geneticamente viziato.

Come ciò possa conciliarsi con una sentenza penale di assoluzione, all’esito di un giudizio connotato da maggiori garanzie di accertamento, di partecipazione, di terzietà del Giudice, di contraddittorio è un interrogativo al quale le varie curie che si sono occupate della questione non hanno mai inteso dare compiuta risposta, sempre rifugiandosi nella diversa finalità della prevenzione. Ma se lo scopo di questa confisca non è più preventivo, ecco allora che si manifesta, in tutta evidenza, quella che la dottrina da tempo ha definito la “truffa delle etichette”, dal momento che, pacificamente, la distinzione tra questo strumento e la confisca penale non è negli effetti, ma nella struttura e nella funzione.

Il recupero, solo in apparenza in chiave special preventiva, di misure afflittivo/punitive che l’ordinamento non è riuscito ad irrogare all’esito del procedimento ordinario e fa risorgere nel procedimento di prevenzione è una frode non solo concettuale.

Perché ci vorrebbe indurre a non reclamare i nostri diritti fondamentali, affermando l’esistenza di una base legale di tale sacrificio, della quale tuttavia è stata tradita la ratio ispiratrice, per ragioni di politica criminale tipiche dello stato d’eccezione. Un sacrificio ordalico, che si consuma in un rito senza prescrizione, senza una compiuta pregiudizialità penale, senza vincolo di giudicato stabile, senza contraddittorio effettivo.

Il procedimento delle privazioni, delle scorciatoie, che diventa tanto più invasivo e commissario, quanto più si amplia il catalogo dei suoi destinatari, in onta al feticcio dell’Antimafia sul cui altare tutto è sacrificabile. Ora il Governo dovrà dare delle risposte ai quesiti della Corte Edu. Dovrà spiegare se due misure ablative identiche possono distinguersi - ed essere perciò ritenute appartenenti a due diversi ambiti ordinamentali - solo sulla base del loro procedimento applicativo.

Se tali procedimenti possano avere esiti incompatibili tra loro e se tale incompatibilità possa giustificare il mantenimento di una delle due misure. Se, ancora, si possa essere sottoposti a più procedimenti ed a diverse sanzioni, sia pure di contrabbandata natura eterogenea, alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza convenzionale, con la progressiva evoluzione che, partendo dal caso Grande Stevens/Italia ed attraverso i casi Engel/Paesi Bassi e Mihalace/Romania, consente la sottoposizione a doppio binario sanzionatorio per idem factum solo a condizione che: ci sia differenza degli scopi dei procedimenti e diversità dei profili della medesima condotta in oggetto; sia prevedibile, in conseguenza alla condotta illecita, la duplicità di procedimenti; i procedimenti siano condotti evitando duplicazione nella raccolta e valutazione delle prove; la sanzione del primo procedimento venga tenuta in conto durante il secondo, garantendo proporzionalità della pena. Fin troppo facile rilevare che Il “doppio binario” italiano non presenta tali requisiti. E pare francamente difficile rispondere in modo credibile ai giudici europei, negando che in Italia un innocente può essere privato di tutti i suoi beni.