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di Micol Sarfatti

Corriere della Sera, 6 aprile 2024

Nel libro “Dieci lezioni sul male” analizza le storie di ragazzi che hanno commesso reati, come gli stupri di gruppo. “Vivono la sensazione di rimanere bloccati in un mondo che va avanti”. Il male non risparmia nessuno, non ha età e non ha sesso. Chiunque, improvvisamente, può esserne sedotto e metterlo in atto. Sono tanti, alcuni celeberrimi, i casi di cronaca nera che coinvolgono adolescenti e giovani. Ragazze e ragazzi nella primavera della vita, spesso provenienti da famiglie solide e con un buon livello di istruzione, che si macchiano con crimini e delitti. Mauro Grimoldi ne ha conosciuti tanti nel suo lavoro di psicologo, esperto di criminologia minorile e disturbi del comportamento in adolescenza, e di consulente per i tribunali di Milano, Monza, Brescia e Piacenza e per la corte d’appello di Milano e ha raccolto la sua esperienza nel saggio Dieci lezioni sul male. I crimini degli adolescenti (Raffaello Cortina Editore).

Lo ha presentato ieri, 5 aprile, a Pesaro a Kum! Festival, la kermesse creata e diretta da Massimo Recalcati, con il coordinamento scientifico del filosofo Federico Leoni, che quest’anno avrà come tema La vita della scuola. Grimoldi ripercorre con lucidità e tenerezza le storie dei giovani che hanno commesso reati per capirne le motivazioni, con un presupposto molto chiaro: “La criminalità minorile è una malattia curabile, se ne viene compresa l’origine. Chi sbaglia ha sempre il diritto di ricominciare”.

All’inizio del suo saggio scrive: “È il reato che trova i ragazzi”. Cosa intende?

“È un concetto fondamentale, un punto di partenza e un punto di arrivo insieme. Il reato ha sempre un suo autore preferenziale. È lo stesso principio per cui ci si ammala di una malattia se si è esposti a uno specifico fattore di rischio. C’è una predisposizione personale o ambientale a commettere un determinato tipo di reato. Noi operatori abbiamo notato come le testimonianze e i racconti dei ragazzi sui loro crimini siano in realtà molto neutri, spiegano quello che hanno fatto tentando di trovare una giustificazione etica. La comprensione delle motivazioni è alla base della cura. Negli adolescenti, spesso, la rottura del patto sociale che porta a delinquere nasce da una sensazione di disagio, da un tempo bloccato, da qualcosa che non sta andando bene per cui la trasgressione appare come una soluzione. Anche se ovviamente non è così”.

Ad esempio?

“Prendiamo le violenze sessuali, un dramma tornato prepotentemente di attualità negli ultimi mesi. Il ragazzo che commette una violenza di gruppo è una figura quasi paradigmatica, spesso incapace di pensare all’affettività e, soprattutto, di pensarsi in un rapporto a due. La sessualità e l’incontro con una donna, percepita come irraggiungibile, generano in lui una profonda frustrazione e un senso di disparità con i coetanei che lo porta a chiudersi in sé stesso. Viene così a mancare il confronto e la conoscenza delle regole generali dello stare insieme. Di sesso si parla poco e male, magari solo con alcuni amici. Si ha la sensazione di rimanere bloccati in un mondo che, invece, va avanti e questo genera una pressione narcisistica verso un’esperienza che, in realtà, non ha nulla a che vedere con il desiderio. Il reato sessuale non nasce dal desiderio vero, ma dalla rabbia e dal silenzio. Conoscere queste dinamiche permette di trovare cure più efficaci per i ragazzi. Non è vero che chi commette un reato poi tende a ripetersi. I giovani possono e devono essere aiutati”.

Il carcere è l’unica soluzione?

 “No, alla base deve sempre esserci una diagnosi personalizzata e accurata che consenta di concentrarsi sul singolo, altrimenti non si può guarire. In Italia abbiamo uno dei dispositivi di legge più avanzati sul tema, il D.P.R. n. 448/1988, ma persistono alcune recrudescenze un po’ stereotipate che non sempre permettono di valutare caso per caso. Il penitenziario può essere uno strumento efficace perché svolge una funzione sociale importante, è un’istituzione. Mi è capitato, negli anni, di vedere ragazzi che avevano ottenuto la libertà tornare a bussare alle porte del Beccaria (il carcere minorile di Milano ndr) perché lì dentro si sentivano protetti. Le sbarre non sono solo un contenitore fisico, possono diventare anche un contenitore psichico di grande sostegno. Il problema del carcere è il sistema valoriale completamente ribaltato: nel microcosmo chi commette crimini piccoli è uno sfigato, i vincenti sono quelli che si macchiano dei reati più importanti. Lavorare in quel contesto è molto complicato e non sempre porta a una vera riabilitazione. Il carcere può essere allo stesso tempo un buono e un cattivo strumento, al di là delle rappresentazioni edulcorate restituite da qualche serie tv”.

Si riferisce a Mare Fuori, la serie dei record che racconta un gruppo di ragazzi detenuti in un immaginario IPM di Napoli?

“È un ottimo prodotto, con delle suggestioni importanti, e anche io l’ho vista tutta con grande interesse. Però il carcere minorile, e i detenuti adolescenti, non sono quelli lì”.

In Dieci lezioni sul male sostiene che, nella maggior parte dei casi, i giovani criminali non siano aggressivi. Questo ribalta molti stereotipi.

“È così, spesso, i ragazzi possono avere un’indole impulsiva, ma non aggressiva. Sono fragili e le loro azioni criminogene nascono dall’incapacità di gestire le pulsioni o dal conflitto insanabile che si instaura tra loro e il mondo. Hanno la sensazione di essere stati derubati di qualcosa di cui non riescono a riappropriarsi, vogliono ristabilire una giustizia sommaria punendo gli autori della loro umiliazione sociale: professori, compagni di classe, amici, adulti. L’aggressività non è l’unico stereotipo da abbattere in un racconto veritiero della criminalità giovanile”.

Quali sono gli altri?

 “Si continua a pensare che il male germogli in contesti disagiati, in famiglie problematiche, abbandoniche, incapaci di dare regole, magari di origine straniera. Non è così, soprattutto per i reati più gravi. La microcriminalità si accompagna più spesso a contesti sociali complicati, ma se andiamo a vedere gli stupri, gli omicidi, le violenze private, la situazione è molto più eterogenea. I reati maggiori vengono commessi sulla base di un profondo disagio individuale, spesso legato a un narcisismo frustrato, cioè la distanza incolmabile tra un valore di sé che non si riesce a dimostrare e un mondo ostile. Questo accade più spesso nelle cosiddette “buone famiglie”, dove il figlio è protetto e ha vissuto una bellissima infanzia, ma poi si scontra con le difficoltà dell’adolescenza. Il rifiuto, l’insuccesso, la sconfitta sono passaggi che fanno parte della vita, ma non sempre sono in grado di gestirli”. Gli ultimi dati del ministero dell’Interno restituiscono un quadro della criminalità minorile diverso da quello di qualche anno fa. È uno specchio dei nostri tempi? “Sono diminuiti i reati legati allo spaccio e questo ha a che fare con i lockdown, durante i quali le possibilità di uscire e di avere rapporti sociali erano azzerate. La buona notizia è che non sono tornati ad aumentare. Crescono invece i reati legati alla violenza e all’incapacità di mettersi in relazione con l’altro: rapine e, soprattutto, risse. Vengono organizzate tramite il passaparola sui social, ottengono una partecipazione massiccia. Diventano uno straordinario e terribile rito di catarsi collettiva di una dimensione aggressiva in cui viene persino a mancare l’elemento simbolic0: spesso ci si dimentica cosa l’ha generata”.