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di Damiano Aliprandi

Il Dubbio, 17 novembre 2022

Il regista premiato per il miglior documentario alla 63esima edizione del Festival dei popoli. Il reportage di Antonio Tibaldi sull’isola carcere si aggiudica il premio “Il lavoro dei detenuti questo contesto assume un’importanza monumentale”.

Cosa succede a Gorgona, l’isola- carcere nel mare toscano davanti Livorno? Lo ha raccontato Antonio Tibaldi in “Gorgona” documentario vincitore del Concorso Italiano alla 63esima edizione del Festival dei Popoli. La cerimonia di premiazione si è svolta sabato scorso al cinema La Compagnia di Firenze.

La Gorgona, a una trentina di chilometri da Livorno, è un’isola- carcere, ma del tutto particolare. È l’unico penitenziario in Europa concepito come una colonia agricola, in cui i detenuti lavorano per produrre verdure o formaggi, per allevare animali o curare orti. Uno spazio di lavoro che permette ai detenuti di vivere all’aria aperta, in un ambiente che sembra un paradiso. Antonio Tibaldi è un regista italo- australiano che vive a New York.

I suoi film sono stati presentati in festival internazionali tra i quali Sundance, San Sebastian, Idfa, Rotterdam e Tribeca. Per Untv (Televisione delle Nazioni Unite) realizza documentari in Sud America, Centro America, Africa e Asia.

Lo sguardo di Tibaldi segue le giornate di chi sconta una pena e di chi lavora in un carcere che non sembra un carcere e che la macchina da presa restituisce uno spazio fuori dal mondo. Un film che osserva la vita di una comunità particolare, sospesa, con l’attenzione di uno sguardo che non giudica ma cerca di cogliere il movimento visibile di vite particolari. “Da ragazzino - ha spiegato il regista in una nota rilasciata al festival - mi trovavo su una piccola barca a vela durante una libecciata, la pala del timone si ruppe a poche miglia da Gorgona. Via radio chiedemmo l’autorizzazione di accedere al porticciolo.

Eravamo l’unica barca nel porticciolo, trattandosi di un’isola carcere il cui accesso è severamente vietato. Seduto nel pozzetto della barca guardavo i campi della valle antistante con questi puntini - i detenuti ‘liberi’ dell’isola - che con tanto di forche e pale, lavoravano la terra.

Quella notte non riuscii a dormire. Temevo che uno di questi uomini potesse salire a bordo della nostra barchetta e ucciderci tutti. Mi era rimasto quel vivido ricordo di paura e ‘timore del detenuto’. L’idea di tornare su quell’isola per girare un documentario rappresentava per me un modo di confrontare e contraddire quella paura”.

Al termine del primo sopralluogo nel 2017, Tibaldi ha scoperto che su quest’isola remota esiste un ‘mondo parallelo’ unico e sorprendente. “Non essendoci negozi, né ristoranti, né cellulari, né macchine, né motorini, è come se il tempo si fosse fermato e non avesse contaminato l’isola. Il mio lavoro è stato quello di osservare con la telecamera, con pazienza e perseveranza, il comportamento umano che avveniva di fronte a me. Osservare innanzitutto il lavoro di questi uomini, che in questo contesto carcerario, assume un’importanza monumentale”, conclude.