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di Fabrizia Giuliani

La Stampa, 28 agosto 2023

La storia di Fortuna non doveva passare invano. Non doveva passare la normalità di bambine che cadono giù dai balconi di palazzi dove avviene l’indicibile, dove la violenza - quella violenza - è prevista, tollerata, accettata. Dove la paura prevale e lo Stato non arriva, o arriva dopo, troppo tardi.

La storia di Fortuna non doveva passare invano perché allora la catena si era spezzata, grazie al coraggio delle ragazze capaci di rompere la legge dell’omertà. Ricordiamo i fatti, che rischiano di essere travolti per l’ennesima volta dalla spettacolarizzazione senza insegnarci nulla.

Quando Fortuna vola giù dall’ottavo piano, nel 2014, il fatto viene rubricato come incidente domestico. L’autopsia rovescia il racconto: il medico legale nel corso del processo parlerà di abusi cronici, di “uno scempio mai visto in decine di anni di attività”. Ma la catena delle responsabilità, la ricostruzione dei fatti è resa possibile solo grazie alle testimonianze delle ragazze - allora bambine - che portate in luogo protetto raccontano cosa davvero avveniva in quei palazzi, la normalità degli abusi continui, il divieto di parlarne. Difficile dimenticare le intercettazioni dove le donne più adulte - madri, zie - intimavano il silenzio “poi ti ci abitui, il dolore passa”. Loro non hanno ubbidito, non si sono volute abituare al dolore - quel dolore - e hanno consentito allo Stato di vincere dove quasi nessuno pensava fosse possibile. E poi? Perché la catena non si è spezzata, perché Caivano - come l’Arenella a Palermo - tornano terre di nessuno dove del “superiore interesse del minore” si fa scempio? Perché lo Stato si ritira?

Non è facile restare all’altezza del coraggio di quelle bambine e delle tante ragazze che oggi scelgono di denunciare, ma è necessario, non ci sono altre opzioni. Nessun luogo è un destino, nemmeno Caivano se le istituzioni scelgono, a loro volta, di fare la propria parte. Lo ripetiamo, la violenza contro le donne - le ragazze e le bambine, come ci ricorda la Convenzione d’Istanbul - non è questione locale: supera i confini della geografia, delle classi sociali, delle età. Per sconfiggere un senso comune che ancora la legittima e la tollera, occorre che lo Stato dica con chiarezza da che parte sta, assumendo il contrasto come priorità. A dispetto dei fatti di questi giorni, del clamore suscitato, dell’indignazione, non è avvenuto: la violenza resta in cronaca, non riesce ad uscire da una secondarietà a cui la condanna una cultura vecchia, segnata da retaggi patriarcali.

È stata necessaria una carta ad hoc in Europa, la Convenzione d’Istanbul appunto, per chiarire che la violenza contro le donne è una lesione dei diritti umani. L’Italia ha firmato il trattato nel 2013; è ora di assumerlo fino in fondo, oggi che abbiamo donne alla guida del governo e delle opposizioni.

Farlo vuol dire sottrarre le azioni necessarie al contrasto alla strumentalità della lotta politica, facendone un punto di civiltà al quale tutti devono concorrere perché ne va della dignità di un paese; approvare rapidamente le norme che aspettano da troppo tempo e metterne in cantiere altre per la formazione e per la prevenzione. Dire: ci dispiace, non ci sono altre priorità, ce lo hanno insegnato quelle bambine.