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di Matteo Garavoglia

Il Manifesto, 8 luglio 2023

L’intesa tra Ue e Tunisia contestata dalle organizzazioni umanitarie preoccupate per la deportazione dei migranti. Per la prima volta da inizio anno a Tunisi le temperature hanno superato i 40 gradi. Lungo il deserto al confine con Libia e Algeria si è arrivati anche a 45. In questo momento in quella fascia di terra ci sono 700 persone di origine subsahariana senza acqua e cibo. Le prime deportazioni di massa da parte delle forze di sicurezza locali sono cominciate il 2 luglio prima che la situazione nella città di Sfax, l’epicentro dei disordini di questi giorni, degenerasse completamente.

È quindi arrivata l’ora di porsi una domanda: queste persone saranno ancora vive? Nel mentre i contatti diretti si fanno sempre più sporadici e la società civile tunisina non ha ancora registrato un singolo caso che sia riuscito a raggiungere una città del sud della Tunisia dal deserto.

I fatti sono chiari: da giorni si registrano casi di respingimenti collettivi lungo la frontiera libica e algerina da parte della polizia, impegnata a caricare a Sfax cittadini di origine subsahariana su degli autobus per poi abbandonarli in una zona militarizzata inaccessibile anche alle agenzie delle Nazioni unite. Il quadro più ampio coinvolge l’intera città, uno dei punti più strategici per le partenze verso Lampedusa, dove da quasi una settimana si registrano casi di violenze e aggressioni di ogni tipo. Dopo la morte per accoltellamento di un cittadino tunisino di 38 anni, la bomba sociale è definitivamente esplosa.

Human Rights Watch ha fatto appello alle autorità a interrompere queste deportazioni senza ottenere risposta. Nel frattempo persone originarie dell’Africa occidentale e del Sudan hanno riempito la stazione dei treni di Sfax per cercare riparo altrove. Alcune lo hanno trovato in uno dei quartieri bene della capitale nello spiazzo davanti alla sede dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e si sono aggiunte alle altre centinaia di ragazze e ragazzi (inclusi bambini e neonati) che da mesi non sanno dove andare dopo il duro discorso di Saied lo scorso 21 febbraio contro la comunità subsahariana.

“Io sono arrivato questo giovedì da Sfax”. A parlare è Aboubakar, 23enne dalla Sierra Leone. La seconda città del paese gli ha lasciato un conto molto duro da pagare: un braccio rotto, alcuni denti anche e vistose ferite alla testa. “Mercoledì stavo camminando in città per tornare a casa e all’improvviso mi sono trovato circondato da alcuni giovani tunisini. Hanno cominciato a colpirmi al viso e poi su tutto il corpo con dei bastoni. Mi hanno preso il telefono e rubato i soldi che avevo in tasca. Appena uscito dall’ospedale ho preso il primo treno per Tunisi. Prima di salire la polizia ha registrato le impronte di tutti. Ora mi trovo qui a dormire insieme ad altri miei conoscenti senza neanche una tenda”, prosegue Aboubakar.

SFAX è terra che rifiuta ma che sa anche mostrare il suo lato più accogliente: sono centinaia i tunisini che hanno offerto un aiuto concreto alle persone in difficoltà. Quello che manca senza dubbio è una presa di posizione della sponda nord del Mediterraneo, in primis l’Unione europea. Un’istituzione che fino a poco tempo fa era impegnata in fitte trattative con il presidente Saied per un memorandum d’intesa che prevede un appoggio economico da quasi un miliardo di euro per incentivare gli investimenti e rafforzare le frontiere esterne del paese. Dopo mesi di visite di Stato europee ma soprattutto italiane, al momento non è ancora stata registrata alcuna reazione politica. Un silenzio che fa porre un’altra domanda alla società civile tunisina: cosa comporterebbe questo accordo per il paese? “Innanzitutto c’è un problema di trasparenza - racconta a il manifesto Antonio Manganella, direttore regionale EuroMed di Avocats sans frontières - la prima questione sono i termini di questo accordo. Se ci affidiamo alle dichiarazioni pubbliche non si capisce e tutto è il contrario di tutto. Non si riesce a capire chi ci guadagna tra europei e tunisini. Solo una cosa è chiara: lo stato di diritto non interessa più. La politica estera europea sta morendo in quel pezzo di deserto. L’Ue sta negoziando con un paese del vicinato strategico con un dittatore a seguito di un colpo di Stato fatto due anni fa”.

C’è un altro elemento che in questi mesi ha tenuto alta l’attenzione: la definizione di Tunisia come paese sicuro da parte di diversi attori internazionali, in primo luogo l’Italia. Un concetto privo di contenuti ma che è cominciato a essere smentito dalle diverse segnalazioni arrivate in questi giorni da Sfax: “Sono arrivati a casa [i tunisini, ndr]. Domani se non sono più raggiungibile è perché mi hanno aggredito e preso il telefono. È impossibile chiudere gli occhi, siamo in pericolo. Buonanotte”.