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di Antonio Polito

Corriere della Sera, 7 agosto 2023

Spesso si elevano voci e polemiche figlie di una volontà di riscrivere la storia per rimediare a presunte ingiustizie subite. In un vecchio film, “Prigionieri del passato”, il protagonista soffre perché ha perso la memoria. La destra post-missina, invece, finisce spesso prigioniera del passato per la ragione opposta: ha troppa memoria. Intendiamoci: avere una lunga storia alle spalle in politica non è un male. L’ascesa di Giorgia Meloni sembra anzi più solida di tanti exploit leaderistici degli ultimi anni proprio perché ha fondamenta antiche, che le danno radicamento e consapevolezza. I Fratelli d’Italia non sono “parvenu” della politica.

Però la loro vicenda repubblicana è stata a lungo minoritaria, e ha intrecciato le sue radici anche con il sovversivismo. Va dunque necessariamente rielaborata e ripensata di fronte alle nuove responsabilità di governo, che la mettono a confronto con le esigenze e le opinioni della maggioranza degli italiani. Invece con troppa frequenza nel partito di Giorgia Meloni si levano voci e si agitano polemiche che sembrano ossessionate da una volontà di riscrivere la storia. Quasi come se aver vinto le elezioni desse il diritto di riaprire i conti con il passato, e di vendicare le presunte ingiustizie subite. Mentre vincere le elezioni dà diritto solo a governare, e nell’interesse di tutti.

Si spiega forse con questa ossessione perché la destra abbia finora esercitato il suo nuovo potere con maggior furia e zelo nella conquista delle istituzioni culturali del Paese, dalla Rai al Centro sperimentale di cinematografia, che nella guida delle aziende partecipate. Come se l’esigenza di una nuova “narrazione” fosse perfino più importante del controllo dell’economia. E come se in questa opera ci si potesse fidare solo di chi ha condiviso negli anni la stessa storia.

Se un episodio è un episodio, e può essere giustificato dallo sforzo di cambiar pelle dopo il successo elettorale, tanti episodi uno di seguito all’altro rischiano di segnalare invece una vera e propria sindrome. Pericolosa per una forza di governo. Più che di “reducismo”, si potrebbe parlare di “provincialismo”: di un rifiuto sordo ma diffuso dell’orizzonte europeo e contemporaneo su cui una moderna destra di governo, conservatrice e non reazionaria, deve costruire la sua azione politica. Non giova infatti innanzitutto alla premier Meloni, alla sua ambizione di trasformarsi in statista e alla credibilità che si sta conquistando sul piano internazionale, essere trascinata nella continua sarabanda un po’ sguaiata che dalla Resistenza alla strage di Bologna prova di continuo a contestare le verità sprezzantemente definite “ufficiali”.

Naturalmente ognuno ha diritto alle sue idee, e anche a manifestarle e a fare proselitismo. Perfino le sentenze giudiziarie si possono criticare (e si criticano in abbondanza in Italia, anche a sinistra). La storia della strategia della tensione e degli Anni di piombo è ancora per molti aspetti controversa, non è davvero stata tutta chiarita nelle aule di giustizia anche a opinione di commentatori e analisti non imputabili di “neofascismo”, e la ricerca della verità è un anelito giusto da qualsiasi parte provenga. Ma quando ci si trova di fronte a sentenze definitive emesse “in nome del popolo italiano”, come è nel caso della strage di Bologna, chi ha cariche pubbliche, chi rappresenta le istituzioni ed è perciò tenuto a coltivare una memoria condivisa, viene meno al suo dovere se le rinnega o ambiguamente le rimuove. È per questo che il capo dello Stato ha voluto ricordare, nell’anniversario del 2 Agosto, la “matrice neofascista della strage accertata nei processi”.

Se non si capisce questo si rischia di fare un passo indietro rispetto alle acquisizioni che la destra italiana aveva già fatto nella sua prima stagione al governo, quella di Gianfranco Fini, quando i conti col passato erano stati forse perfino un po’ sbrigativamente chiusi, e si potè così cominciare una nuova storia.

Nei Fratelli d’Italia sono invece ancora troppi quelli che pensano che tra i compiti per così dire pedagogici della politica ci debba essere anche il “revisionismo storico”. Tra l’altro, un revisionismo che finora si è applicato ad aspetti marginali, a contestazioni minori, a ricostruzioni un po’ goffe e di scarsa robustezza storica. Non si è insomma finora nemmeno trattato di un’operazione di una qualche seria portata culturale, che del resto solo agli studiosi e agli intellettuali potrebbe competere.

Alla politica spetta piuttosto il compito di creare un clima generale di rispetto reciproco e di condivisione dei valori repubblicani, che possa eventualmente consentire anche una lettura più obiettiva ed equanime delle vicende del passato. Mentre invece - siamo sicuri se ne sarà accorta anche Giorgia Meloni - questo stillicidio identitario ottiene solo il risultato opposto, di esacerbare gli animi e di riaccendere i contrasti su vicende di molti decenni fa. Rendendo così più difficile e drammatico il confronto sulla storia recente della nazione, e paradossalmente più affilate le armi di chi lo rifiuta in nome di una irriducibile contrapposizione ideologica.