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di Giuseppe Belcastro*

Il Dubbio, 3 ottobre 2023

La sentenza con cui la Consulta ha dato l’ok a giudicare gli 007 egiziani. La sorte di Giulio Regeni e la sofferenza innaturale a cui i suoi genitori sono costretti fanno sanguinare le coscienze. Nessuno strumento diplomatico è parso in grado di ottenere dallo Stato egiziano la cooperazione necessaria a far luce sull’omicidio, e anzi, proprio a causa di tale ostruzionismo, il processo domestico si è arrestato, devolvendo alla Consulta il dubbio che tale impossibilità di procedere oltre fosse legittima.

Il 27 settembre, la Corte Costituzionale ha dichiarato che non lo è, statuendo che un processo per tortura può andare avanti anche se l’imputato non lo sa, quando la causa dell’ignoranza è la mancata cooperazione del suo Stato di appartenenza. Niente autorizza a stabilire un legame tra il fallimento delle diplomazie e l’intervento della Corte, ma tutto stimola a riflettere.

In disparte il coefficiente di raffinatezza di un ordinamento, è certo è che il processo penale si svolge contro l’imputato. Egli subisce la vicenda processuale, entrando in un’aula con le spalle curve sotto il peso immane della richiesta d’esser privato della libertà e dell’onore, per sostenere la quale un pubblico funzionario, con una schiera di uomini al suo servizio, ha orchestrato un marchingegno segreto e intrusivo, chiamato investigazione, e dato fuoco alle polveri del processo, auspicando a gran voce la condanna.

Non è un’anomalia né una prevaricazione insopportabile, essendo nell’ordine delle cose che la collettività, quando la sorveglianza sul rispetto delle regole sia risultata inefficace, batta vie per ripristinare l’ordine violato e che, dunque, al possibile autore di quella violazione qualcuno chieda conto.

Ma la collettività opera in maniera opposta rispetto all’autore della violazione, garantendosi la legittimità attraverso un apparato di regole che la tengono al di qua della barricata, senza promiscuità con il delitto, le sue modalità operative, le sue ragioni. Queste regole, in fondo, sono il cardine del processo, per certi aspetti sono il processo.

Violarle vuol dire tradire la funzione dello strumento, saltando la barricata, e tramutare una macchina arcigna, ma giusta - o, almeno, sopportabile - in una clava brandita senza controlli. Si dirà che non tutte le regole del processo hanno pari rango, rinvenendosene alcune di minor cabotaggio perché deputate a presidiare diritti minori. È un’obiezione zoppa, perché violare una delle regole, addirittura sovvertendone il rapporto con l’eccezione, implica sempre rimettere in discussione l’idea stessa del processo come regola, mandando concettualmente in crisi l’intero apparato. Ma anche a dare per buona l’idea che vi siano regole e regole - e anzi proprio da qui muovendo - non è difficile individuare quale tra queste sia la matrice originaria che dà accesso ad ogni altra e senza la quale il rito non si compie, anzi non incomincia nemmeno: è la conoscenza del processo da parte di chi lo subirà.

Senza conoscenza non c’è difesa e senza difesa non c’è processo. È come se un gruppo di estranei, in luoghi ignoti decidesse le nostre sorti senza che noi si possa intervenire in ragione della invincibile costrizione dell’ignorare che ciò stia accadendo. Comprimere il diritto alla conoscenza o peggio annichilirlo equivale a compiere la massima delle violazioni, propria dei regimi autoritari, nei quali il processo, piuttosto che anelare all’accertamento umano (e perciò limitato) della responsabilità, insegue la verità, con l’idea di poterla davvero raggiungere. Idea che rende essa stessa superflua la mediazione delle regole che non servono più e anzi diventano intralcio.

Le nostre norme, invece, impongono che si faccia ogni tentativo per informare l’imputato di quanto va accadendo in suo danno e che quando non ci si riesce ci si fermi, si attenda. Nel nostro sistema liberale, insomma, non è consentito che un individuo venga processato senza saperlo. Ma io ho sbagliato il tempo del verbo. Non ERA consentito. Fino al 27 settembre, appunto, quando la Consulta ha adottato la sua decisione. Decisione enorme per l’idea che la sostiene e gli effetti che può implicare (al difensore dell’assente, per dirne una, la Cartabia impedisce pure l’appello, rendendo le condanne di primo grado tendenzialmente definitive).

Altre sono le penne e le competenze necessarie a commentarla tecnicamente; mi limito allora a una domanda: nel paese del doppio binario espansivo, quanto tempo occorrerà prima che un’eccezione, che travolge la stessa essenza della regola, attecchisca altrove, divorando questo nucleo essenziale di garanzia in altri casi reputati sufficientemente analoghi?

Quando si elide una garanzia, del resto, lo si fa per tutti. Anche per quegli inconsapevoli menestrelli - a volte dotati di simpatia così travolgente da rasentare la comicità - che hanno incominciato da subito a gioire in rima per la decisione e la giustizia che va avanti, senza percepire la vertigine che essa rischia di produrre e continuando a domandarsi per chi suona la campana, mentre tagliano ridendo il ramo su cui sono seduti.

*Vicepresidente Camera Penale di Roma