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di Roberto Ciccarelli

Il Manifesto, 25 gennaio 2024

“Se non sei disponibile a lavorare - ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni - non puoi pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora ogni giorno”. Un pensiero ricorrente quando si vuole governare i poveri e non liberare la società dalla povertà. L’odio dei poveri ha un motore: il lavoro. Quello che c’è ed è precario, brutale, pagato sempre peggio, talvolta persino gratuito. E, soprattutto, il lavoro che non c’è. Quello che i poveri definiti “occupabili” - cioè considerati “abili al lavoro” - devono inseguire, iscrivendosi alla cabala di corsi di formazione, sperando che portino a un lavoro, qualsiasi esso sia. E anche a 350 euro, sperando che arrivino. Perché nemmeno l’iscrizione a un corso potrebbe garantirlo, dicono le cronache di queste settimane.

Chi, tra gli “occupabili”, si trova in questo girone infernale, ieri ha ricevuto un supplemento di pena da Giorgia Meloni nel “premier time”. “Se non sei disponibile a lavorare - ha detto - non puoi pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora ogni giorno”.

La frase è emblematica . Vuole dire che la povertà è colpa di chi non vuole lavorare. Perché è noto che oggi, chi tra i poveri lavora, sta bene. Si riscatta dalla colpa della povertà. Si emancipa dal bisogno. È assunto nel paradiso delle merci e ne gode beato. Di bestialità simili è disseminatala storia del capitalismo.

Le dicevano già tra il 1597 e il 1601, quando Elisabetta I varò le prime “leggi sui poveri” in Inghilterra. Oggi, è cambiata l’epoca, ma siamo ancora allo stesso punto. I poveri, anche quando lavorano, non escono dalla povertà. Li chiamano working poors. L’anglismo serve a infiocchettare l’odiosità di una vita bisognosa, ma non serve a evitare gli insulti quando qualcuno perde il lavoro e non ne trova un altro.

La frase è anche lacunosa. Meloni, infatti, non ha detto che il suo governo è intervenuto sui criteri che regolano la “disponibilità a lavorare” del povero. Criteri che non riguardano la volontà di un individuo, ma che sono usati per condannarlo moralmente contrapponendolo a chi “lavora ogni giorno” e, magari, arriva a considerare “scroccone” o “lazzarone” chi riceve un sussidio.

Di preciso, parliamo dell’abbassamento della soglia dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee): da 9.360 a 6 mila euro annui. Non è una questione tecnica, ma politica. È questa norma ad avere escluso gli “occupabili” dall’accesso al “supporto per la formazione e per il lavoro”, la misura a loro destinata, parallela all’”assegno di inclusione” destinato ai poveri ritenuti “inabili al lavoro”. I dati sono stati forniti da Meloni: su 249 mila potenziali “occupabili” che percepivano il reddito di cittadinanza, solo 55 mila hanno presentato domanda, poco più del 22% della platea. “È possibile che alcune di queste persone abbiano trovato lavoro privatamente - ha detto la presidente del Consiglio - ma è possibile anche che alcune di loro non cercassero un’occupazione o preferissero lavorare in nero: questa è la ragione per la quale sono molto fiera del lavoro che abbiamo fatto”.

Quale lavoro possa trovare chi ha un reddito Isee superiore ai 6 mila euro ma inferiore a 9.350 euro, è immaginabile. E non sorprenderebbe il fatto che sia “in nero”. Meloni, anche qui, non ha detto l’essenziale: il problema non si porrebbe, se ci fosse un datore di lavoro disposto ad assumere con un contratto e non a sfruttare “in nero”; se ci fosse un governo disposto a disboscare la giungla dei contratti precari; se ci fosse un Welfare con un reddito di base, un sistema fiscale giusto, sanità e scuola pubbliche non stritolate nella morsa dell’aziendalizzazione. E un’”autonomia differenziata” all’orizzonte che farebbe un macello.

Attribuire le responsabilità di un sistema alle sue vittime è lo scopo di chi vuole governare i poveri e non liberare la società dalla povertà. C’è chi è “fiera” di averlo fatto, come Meloni. A chi, invece, oggi la critica basterebbe ricordare che una soglia più alta non serve ad “abolire la povertà” come pure è stato detto da un balcone di palazzo Chigi.