sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Irene Fassini

milanotoday.it, 13 giugno 2022

In Lombardia tutti gli istituti di pena risultano sovraffollati e con la pandemia da Covid-19 i numeri e le condizioni sono peggiorate, la prova i due suicidi recenti in sei giorni.

Due morti in sei giorni. E nello stesso carcere. Due detenuti di 27 e 21 anni si sono tolti la vita nella casa circondariale di San Vittore a Milano. Sono due dei 29 casi di suicidio in carcere del 2022. Un numero che continua a crescere da almeno dieci anni, con un solo picco in negativo tra il 2013 e il 2016 quando il decreto cosiddetto “svuota-carceri” è intervenuto parzialmente sul sovraffollamento degli istituti di pena. Ci sono diverse variabili che incidono sul tasso di suicidio in carcere, anche se una cosa è certa: l’andamento riflette le condizioni di detenzione. Che in molti istituti italiani e anche lombardi sono critiche. Il numero di detenuti continua a crescere, ma gli spazi rimangono sempre gli stessi.

L’impatto della pandemia - Il tema del sovraffollamento è una questione che ritorna ogni volta che si parla degli istituti di detenzione. Le rivolte in alcune carceri italiane nel 2020, all’inizio della pandemia da Covid-19, l’hanno messo in luce, sottolineando un’emergenza nell’emergenza: spazi ridotti all’interno delle celle, carenza di servizi e personale esterno, difficoltà di accesso alle cure mediche. Una risposta nella prima fase dell’epidemia era stata la possibilità di scontare gli ultimi diciotto mesi di pena ai domiciliari. Questo, insieme alla riduzione degli arresti, aveva portato temporaneamente a un calo delle presenze in carcere: dalle quasi 61mila del 2019 alle 53mila del 2020. Numeri che però, finita l’emergenza, stanno già tornando a salire. Nel mese di aprile 2022 i detenuti erano già quasi 55mila, mentre le case di reclusione e circondariali sul territorio italiano ne potrebbero ospitare poco meno di 51mila: più di 4mila persone senza lo spazio necessario che dovrebbe essere garantito per legge.

Le rivolte del marzo 2020 - Il 9 marzo del 2020 l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte stabilisce la chiusura di tutte le attività e il blocco degli spostamenti sul territorio italiano per far fronte ai contagi da Covid-19 che stanno aumentando in modo esponenziale. Per l’Italia inizia il lockdown, che sarebbe durato fino al 18 maggio. Più di due mesi chiusi nelle proprie abitazioni, limitando le uscite e i contatti sociali se non per necessità. Per chi era all’epoca recluso in uno degli istituti di detenzione italiani significava la sospensione dei colloqui con i familiari, del lavoro, della semilibertà, dei permessi premio, delle attività gestite dai volontari e quindi di qualunque contatto con il mondo esterno. A questo si aggiungeva la paura dei contagi. Le carceri italiane ospitavano all’epoca 11mila detenuti in più rispetto alla loro capienza: mantenere il distanziamento ed evitare assembramenti era di fatto impossibile. E anche i dispositivi di protezione individuale, come in tantissimi altri luoghi, non erano disponibili.

Tutto questo contribuisce ad alimentare una situazione di tensione che scoppia il 7 marzo e prosegue per alcuni giorni con casi di particolare gravità, diversi morti, tentativi di evasione ed episodi di violenza. Le rivolte arrivano al culmine proprio il 9 marzo 2020 e coinvolgono oltre 70 penitenziari lungo tutto lo stivale, mentre in altri 30 ci sono proteste pacifiche. In Lombardia il caso di maggiore gravità si verifica nella casa circondariale di San Vittore a Milano, dove i detenuti innescano un incendio e assaltano l’infermeria per prendere metadone e altre sostanze. Anche le altre due carceri cittadine di Bollate e Opera sono coinvolte dalle rivolte, come pure quella di Torre del Gallo a Pavia. Ma le situazioni più gravi si verificano al confine con la Lombardia: al Sant’Anna di Modena perdono la vita nove detenuti per presunta overdose, alcuni all’interno del carcere e altri durante i trasferimenti verso diversi istituti.

Lombardia, tra le regioni peggiori - Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, l’associazione che dagli anni Ottanta si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale, la Lombardia presenta un affollamento carcerario tra i più alti in Italia: 129,9 per cento rispetto alla media nazionale del 107,4 per cento. Con picchi del 165 per cento negli istituti penitenziari di Varese, Bergamo e Busto Arsizio e persino del 185 per cento nella casa circondariale Canton Mombello a Brescia. “La situazione bresciana è nota da tempo perché il sovraffollamento è la nostra quotidianità degli ultimi quindici anni, con picchi anche di 600 detenuti per 189 posti”, spiega a Milano Today Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Brescia. “La struttura obsoleta e inadeguata influisce notevolmente, rendendo gli spazi poco vivibili”, prosegue.

“Durante la pandemia - racconta a Milano Today Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano - si è imposto di fatto un numero chiuso alle carceri. Soluzione - precisa Maisto - suggerita di recente dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura nei casi di costante sovraffollamento”.

E proprio con le scelte imposte dalla pandemia di Covid-19, nonostante le criticità, si sono visti risultati significativi. “Nel 2020 e nel 2021 - prosegue Maisto - i penitenziari lombardi hanno visto la presenza di mille detenuti in meno rispetto agli anni precedenti. Questo grazie a un maggiore ricorso alle misure alternative”. Misure che, in passato, non sono state adottate con la stessa frequenza. Il calo di detenuti per rientrare nei numeri previsti è stato però un’eccezione. Come altre ce n’erano state in un passato che ha poi visto le presenze sempre risalire fino a superare di nuovo i limiti di capienza.

Le misure alternative alla detenzione - La detenzione in carcere non è l’unica modalità di esecuzione della pena. In Italia, come in tutti i Paesi europei, esistono delle alternative in base al tipo di reato e alla durata della pena, anche residua. L’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare e la semilibertà sono misure che limitano comunque, anche se parzialmente, la libertà del condannato, ma che gli consentono di mantenere un contatto con il mondo esterno, favorendo il suo percorso di reinserimento sociale. Il fine è evitare o limitare l’accesso al carcere e, con questo, anche il rischio di recidiva e il sovraffollamento degli istituti penitenziari. Un obiettivo che, dai dati, è anche un risultato. Chi sconta la pena fuori o parzialmente fuori dal carcere avrà un rischio tre volte più basso di commettere di nuovo un reato. Con l’affidamento in prova, chi ha una pena inferiore a tre anni può essere affidato ai servizi sociali e seguire con loro un percorso di reinserimento. La semilibertà consente al condannato di trascorrere parte del giorno fuori dal carcere per lavoro o per svolgere altre attività, mentre la detenzione domiciliare permette al condannato di scontare la pena all’interno della propria casa o in un luogo di cura, assistenza e accoglienza.

Un andamento altalenante - Con l’indulto del 2006 la popolazione detenuta passa da 59mila a 39mila persone, per poi tornare in soli due anni a 58mila. Nel 2013 un nuovo calo, con la sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo e la condanna all’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti di sette persone detenute. Alcune di queste proprio del penitenziario di Busto Arsizio che, nel 2011, contava 439 detenuti per 297 posti, con casi di limitazione dello spazio riservato a ciascuno e un ridotto accesso ad acqua calda e illuminazione adeguata. La Cedu nel 2013 concede all’Italia un anno per adottare rimedi strutturali contro il sovraffollamento. La risposta arriva nel 2014 con il decreto Svuota-carceri e la previsione di misure sia per favorire l’uscita dal circuito penale sia per limitare gli accessi ai penitenziari, in particolare quelli per possesso di piccole quantità di sostanze stupefacenti.

Nonostante la dichiarazione di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi ­- che equiparava droghe leggere e pesanti -, gli stupefacenti restano uno dei principali motivi di ingresso negli istituti di pena: secondo gli ultimi dati pubblicati nel Libro bianco sulle droghe, in Italia nel 2020 il 35 per cento dei detenuti era in prigione per reati di traffico, spaccio o detenzione. Un dato che è quasi il doppio della media europea, ferma al 18 per cento. Non solo. Da oltre cinque anni l’ingresso negli istituti di pena di persone tossicodipendenti è in costante aumento e ha ormai raggiunto la quota del 38,6 per cento di tutti coloro che entrano in carcere. Ma questa impronta repressiva è un filo conduttore che non riguarda solo i reati per droga. “È una deriva dell’ultimo decennio”, spiega Maisto, “con un approccio al carcere che ha portato a investimenti sulla sicurezza e non sui trattamenti”.

Più controllo, meno reinserimento - Il risultato è un rafforzamento delle strutture di sicurezza e del personale di controllo. L’Italia ha, dopo l’Irlanda, il Lussemburgo e la Svezia, il miglior rapporto in Europa tra detenuti e operatori di polizia penitenziaria - 1,6 detenuti ogni agente -, ma ha tralasciato il potenziamento di strutture e personale esterni che dovrebbero supportare e sostenere il detenuto nel percorso di reinserimento sociale. Non a caso l’Italia, dopo la Bulgaria, è il Paese europeo che ha la percentuale più alta di agenti di polizia sul totale del personale: l’83 per cento. Solo il restante 17 per cento è dedicato ad altri compiti, mentre nei Paesi Bassi è il 48 per cento. Un sistema, quello italiano, improntato alla sicurezza più che al reinserimento. E forse proprio questi numeri possono aiutare a spiegare perché solo in situazioni emergenziali si faccia ampio ricorso a quelle misure alternative che per essere pienamente efficaci avrebbero bisogno di strumenti, strutture e operatori esterni.

Evitare il carcere - La ministra Cartabia sembra aver fatto un passo avanti per limitare l’accesso al carcere con la riforma del sistema sanzionatorio: detenzione domiciliare, semilibertà, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria possono essere applicate direttamente dal giudice in fase processuale, nei casi di condanne di breve durata, come pene sostitutive. Il condannato in questo modo potrebbe evitare la detenzione e non dovrebbe fare poi richiesta di applicazione di una misura alternativa al Tribunale di sorveglianza. È anche un tentativo di arginare il fenomeno dei ‘liberi sospesi’: 80mila condannati per reati di lieve entità - con pena sospesa per la breve durata - che aspettano per anni in stato di libertà la decisione del Tribunale di sorveglianza sull’applicazione di una misura alternativa. Decisione che in genere arriva dopo un tempo più lungo della durata stessa della pena.

Morire di carcere - Ma non è solo un tema di reinserimento sociale: vivere all’interno del carcere può diventare una questione di vita o di morte. Tra i detenuti i casi di suicidio sono molto più numerosi: scontare una pena all’interno di un istituto penitenziario rende il rischio di togliersi la vita tredici volte più alto rispetto alle persone libere. Le condizioni di isolamento delle strutture - spesso molto vecchie o in aree periferiche delle città - e la difficoltà di relazioni umane con l’esterno rendono il carcere un luogo dove una popolazione già in condizioni di marginalità si sente ancora più esclusa dal mondo che c’è fuori. E non contribuiscono le difficoltà - acuite dalla pandemia da Covid-19 - di contatti con i parenti e con operatori esterni.

Secondo Antigone, andrebbe poi prestata particolare attenzione per i momenti più delicati: l’ingresso e l’uscita dal carcere dovrebbero avvenire gradualmente. Non è forse un caso che uno dei più recenti casi di suicidio, nel carcere di Pavia, abbia riguardato un detenuto ancora giovane, che a 37 anni aveva solo poco più di un anno ancora da scontare. E non manca chi, senza arrivare a togliersi la vita, compia comunque azioni violente contro se stesso. Questi gesti sono aumentati sensibilmente negli ultimi anni, dai quasi 7mila del 2015 agli oltre 11mila del 2019 e 2020. Dati che portano l’Italia tra i primi posti per numero di suicidi nel 2020 tra i Paesi dell’Unione europea.