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di Donatella Stasio

La Stampa, 19 luglio 2023

Nel marzo del 1991, il governo Andreotti varò un decreto legge di interpretazione autentica delle norme sul calcolo della custodia cautelare per riportare subito in carcere 24 boss mafiosi scarcerati in base a una sentenza sbagliata della Cassazione. Sedici anni dopo, nel 2007, ripensando a quel decreto, Giulio Andreotti ammise: “Ormai posso dirlo: quel decreto era una specie di golpe, un vero sopruso”. Inaccettabile la sentenza ma pericoloso il rimedio del governo.

Oggi come allora (ma nel mezzo ci sono stati altri casi, sia pure rari), un nuovo “decreto legge di interpretazione autentica” per correggere una sentenza della Cassazione potrebbe essere emanato per evitare che alcuni processi finiscano in fumo perché il reato contestato non è di “criminalità organizzata”. Questo, almeno, secondo gli annunci che la Presidente del Consiglio ha fatto mercoledì in Consiglio dei ministri e che ha lasciato trapelare.

Il condizionale, però, è d’obbligo non perché il problema non esista, ma per lo strumento evocato dalla premier, e pubblicizzato forse anche per recuperare terreno sul fronte del contrasto alla mafia dopo la polemica sul concorso esterno, inopinatamente aperta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. La propaganda politica, a volte, fa brutti scherzi. È infatti difficile immaginare - a maggior ragione in un momento di tensione con la magistratura come quello attuale, tenuto a bada a fatica dal Quirinale - che il governo ricorra a uno strumento - l’interpretazione autentica di una norma - che definire bordeline è un eufemismo, come dimostra la postuma ammissione di Giulio Andreotti e, soprattutto, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e della Corte costituzionale.

L’interpretazione autentica si giustifica quando c’è davvero un’incertezza nella lettera della legge o c’è un contrasto interpretativo in Cassazione, ma non quando non si condivide una sentenza. Altrimenti il legislatore invade il campo riservato al giudice. Inoltre, l’interpretazione autentica ha effetti retroattivi e quindi cambia le carte in tavola mentre si sta giocando. Quel che invece il governo può fare è una nuova norma che dica chiaramente quando un delitto è di “criminalità organizzata” ai fini degli strumenti di indagine e processuali (senza rischiare l’annullamento postumo del procedimento).

Tutto nasce dalla sentenza n. 34.895 del 21 settembre 2022 che ha dato un’interpretazione più “garantista” dei reati di criminalità organizzata. Sono tali, secondo la prima sezione della Cassazione presieduta da Angela Tardio, quelli contestati fin dall’inizio come reati associativi, comuni e non. Non sono tali, invece, i reati non associativi - dall’omicidio all’abuso d’ufficio - pur se contestati con l’aggravante del finalismo mafioso. Il tallone d’Achille sarebbe l’eccessiva rigidità con cui la Corte - richiamando un precedente delle sezioni unite del 2016, di cui però sembra dare una lettura più restrittiva - esclude dall’ambito della criminalità organizzata i cosiddetti “reati scopo” dell’associazione mafiosa. La sentenza dice infatti che per qualificare un delitto di criminalità organizzata è necessaria la contestuale contestazione del reato di associazione, mafiosa o semplice, laddove si è sempre ritenuta sufficiente la chiara riconducibilità del singolo “reato scopo” al contesto associativo mafioso.

Mentre in Cassazione non si sono ancora presentati casi analoghi, tra i giudici di merito la sentenza ha creato fibrillazioni e il loro allarme non si può certo ignorare. Gli uffici tecnici di via Arenula sono al lavoro e sul tavolo c’è anche un intervento legislativo che definisca con chiarezza i delitti di criminalità organizzata. Una norma nuova, insomma. Che si potrebbe applicare anche ai processi in corso. A meno di lasciare la soluzione alle dinamiche giurisdizionali, dando alla Cassazione il tempo e il modo di adeguare la sua interpretazione.

Un decreto legge di interpretazione autentica sarebbe eccessivo e rischia di essere percepito come uno schiaffo alla Cassazione. Questo è invece uno di quei casi in cui la leale collaborazione istituzionale ben potrebbe portare a soluzioni equilibrate e condivise, rispettose delle reciproche competenze, delle esigenze di contrasto alla criminalità organizzata e delle garanzie degli indagati.