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di Irene Decorte

Gazzetta di Lucca, 5 febbraio 2023

“Il carcere di Lucca è vivo”. Con questa pregnante affermazione Alessandro Maionchi, avvocato e responsabile dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Lucca, ha aperto il convegno che si è tenuto questa mattina 4 febbraio presso la Casa circondariale San Giorgio. Ha voluto così sottolineare l’importanza che ha tenere discussioni del genere entro lo stesso ambiente del carcere. “Riteniamo che l’unico vero modo per accendere i riflettori sul carcere sia aprirlo alla società civile, per costringerla a spogliarsi di quell’abito mentale per cui si tratterebbe un luogo di oblio dove le persone si gettano senza più recuperarle.”, ha affermato l’avvocato.

L’incontro di oggi ha avuto al suo centro una tematica delicata e di cui, come ha avuto modo di sottolineare la direttrice del carcere Santina Savoca, proprio in funzione di questa delicatezza si tende a parlare poco: il rapporto tra la donna e il carcere.

“Il carcere non è per le donne”, ha asserito Giulia Mantovani, professoressa associata di diritto processuale penale presso l’università di Torino, riportando parole raccolte fra le detenute della casa circondariale di Lecce. E si tratta di parole pregne di verità: in virtù della loro condizione di minoranza numerica (sul totale dei detenuti negli istituti penitenziari, le donne costituiscono poco più del 4 per cento, come ha ricordato l’assessore Giovanni Minniti), le donne detenute si trovano in una condizione di assoluta marginalità, che si manifesta tanto relativemente a temi grandi e complessi quanto a quelli solo apparentemente piccoli e quotidiani. A riguardo, la dottoressa Sofia Ciuffoletti, direttrice del centro di documentazione sul carcere, devianza e marginalità, associazione “Altro diritto”, ha ricordato il suo stupore nello scoprire che, in un’istituzione carceraria femminile da lei seguita, alle detenute non era permesso di tenere in cella una lametta per radersi; cosa che agli uomini è non solo permessa, ma ritenuta necessaria.

“Se il carcere per la società ha una considerazione residuale e marginale, la condizione della detenzione femminile lo è ancor di più” ha osservato Gianpaolo Catanzariti, avvocato e responsabile nazionale dell’Osservatorio carcere - camere penali. Nell’affrontare questa tematica, è fondamentale menzionare le Regole di Bangkok; adottate nel 2010 dall’ONU, costituiscono il primo documento internazionale che tratta nello specifico la detenzione femminile. Ne ha parlato ampiamente la professoressa Mantovani. Le regole mirano a fornire delle linee guida perché gli ordinamenti nazionali adottino un’esecuzione penale adatta alla particolare situazione delle donne. Gli elementi centrali su cui insistono sono quelli della non-discriminazione e della formazione (ad esempio, l’articolo 33 stabilisce che tutto il personale che lavora con le detenute debba ricevere una formazione sui bisogni specifici delle donne e sui diritti umani delle detenute).

Naturalmente, quando si parla di donne e carcere è una la tematica che salta subito all’attenzione: quella del rapporto tra la madre detenuta e i figli. Drammatica è la situazione quando la madre, in carcere, viene separata dai figli; per rendere la cruda concretezza di questa problematica, ha presentato la propria testimonianza Michele Stepich, detenuto presso il carcere di Lucca che circa 10 anni fa visse l’incarceramento della compagna.

“Una mattina sono venuti e l’hanno portata in carcere”, ha ricordato “I bambini mi chiedevano perché avevano portato via la mamma. Ho detto che aveva fatto una cosa che non doveva fare. La sera mi hanno chiesto quando tornava la mamma. Che dovevo dirgli?”

Ancora più tragica è la condizione dei bambini sotto i tre anni che vivono in prigione insieme alla mamma, che ad oggi, nel nostro contesto penitenziario, sono circa 30. Maria Brucale, avvocato del foro di Roma, ha ricordato l’incontro con una bambina di due anni che viveva in carcere con la madre. “Tutta la sua vita era conosciuta con le parole del carcere”, ha detto ad esprimere la drammaticità della situazione sua e dei bambini come lei.

“La convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia del 1989 richiede che ogni decisione che abbia un impatto su un minore tenga conto del suo interesse preminente.” ha spiegato la professoressa Mantovani “Tutti gli attori del sistema penitenziario sono chiamati a pensare al bambino, che non va considerato come qualcosa di accessorio, ma come centrale in ogni momento decisionale”.

Naturale che il carcere non possa essere un luogo adeguato per la crescita di un bambino. Come fare, allora, per evitare che tali situazioni continuino a verificarsi?

“Dalla seconda metà degli anni Ottanta, in Italia si è fatto molto a livello normativo per evitare la carcerazione delle donne con bambini” ha detto ancora la professoressa Mantovani “e oggi una delle soluzioni migliori sembra essere la detenzione domiciliare presso case famiglia protette. Nel 2011, la legge 62 le ha inserite tra i possibili luoghi dell’arresto domiciliare; il problema è che stabilì anche il disimpegno finanziario dello stato per queste strutture. Per fortuna, nel 2020 la legge di bilancio per il triennio 21-23 ha previsto un fondo per il loro finanziamento”.

E ha concluso: “Queste norme danno l’idea di un nuovo volto dell’esecuzione penale, riportante le caratteristiche dei servizi alla persona, che potrebbe in futuro essere implementata nei confronti di tutti. Le case famiglia protette possono raccogliere la scommessa di un’esecuzione penale esterna integrata nella rete dei servizi al territorio, che accompagni le donne nel ritorno alla comunità”. Riflessioni di quest’ordine sono importanti anche perché, come ha affermato l’avvocato Catanzariti, “parlare di carcere e donne può essere la chiave di volta per affrontare problematicità generali del pianeta carcere, e migliorare la condizione di tutti i detenuti”.

I temi trattati finora possono quindi essere colti come punti di partenza per riflettere su temi macroscopici, quali le finalità del sistema carcerario e una sua possibile riforma per garantirne la messa in pratica. “La necessità di una riforma del sistema carcerario è quasi insita nel concetto stesso che sta alla base della sua istituzione, il mito dell’isolamento come tecnica punitiva primaria” ha spiegato Luca Bresciani, professore di diritto penitenziario all’università di Pisa “È un paradosso riabilitativo- come si può insegnare a degli esseri umani in cattività a vivere la vita da liberi? Ma è questo che sostenevano gli illuministi, che la personalità del detenuto vada annullata per poter ridisegnare su di lui come su di una pagina bianca; che l’individuo vada ridisegnato. Ancora oggi, il sistema carcerario è fondato su un paradigma medico-terapeutico, che vede l’obiettivo della carcerazione come la cura, o la correzione dell’individuo macchiatosi di colpa”.

Ha affrontato la stessa tematica anche l’avvocato Brucale, concentrandosi in particolare sulla problematicità dei vocaboli stessi adottati nel contesto carcerario. “Dovremmo modificare del tutto il linguaggio del carcere, a partire dalla Costituzione. Rieducazione e trattamento mi sembrano due parole oscene;” ha affermato l’avvocato “il concetto di rieducazione implica che la persona sia affetta da una minorità sociale, che sia una persona piccola. E per quanto riguarda il trattamento- il detenuto non va trattato. Va orientato, guidato, seguito prima di tutto come una persona, che ha i suoi principi, i suoi desideri, le sue motivazioni”.

Ci dobbiamo - e possiamo - dunque auspicare un nuovo volto del sistema carcerario, che abbia come obiettivi primari il reinserimento, la rieducazione, la risocializzazione dei detenuti. “Si deve impedire che, all’uscita dal carcere, i detenuti e le detenute si sentano afflitti, bloccati da un’assenza di prospettive” ha detto Roberta Careddu, in rappresentanza dell’UEPE di Lucca “La cosa fondamentale è che tutti gli operatori che lavorano nel settore cerchino di creare opportunità all’esterno, concrete, in modo che si realizzi concretamente quanto previsto a livello legislativo”.

Un auspicio che, per ritornare alla tematica centrale del convegno, incontra criticità particolari in relazione all’universo femminile. La professoressa Mantovani ha sottolineato l’importanza di educare le detenute ad attività che, una volta uscite dal carcere, possano garantirne l’emancipazione economica: visto che non è raro che le donne restino l’unico adulto a sostenere, anche economicamente, i figli, aiutare una donna a raggiungere delle competenze lavorative adeguate equivale ad aiutare l’intero nucleo familiare. Per questo, le già nominate regole di Bangkok stabiliscono che le detenute abbiano accesso ad una serie di attività equilibrate e diversificate, che tengano conto dei bisogni specifici del loro genere.

Tuttavia, la stessa formulazione di questo principio rischia di prestarsi a interpretazioni fuorvianti e potenzialmente nocive. “Nel 2017 è stato condotto uno studio per verificare quanto le regole venissero applicate nei vari paesi” ha iniziato la professoressa “Ciò che è emerso è che in diversi paesi l’indicazione di tenere conto dei bisogni specifici delle donne si è tradotta nell’offerta di attività ritenute tradizionalmente femminili: pulizia, cucito e così via. Naturalmente, non è questo ciò che si richiede - ma un’offerta di formazione professionale che sia adeguata alla reale domanda nel mercato del lavoro”.

Nell’ambito di una risocializzazione del detenuto, soprattutto che affronti pene di lunghezza notevole, un’importanza fondamentale ha il mantenimento dei legami affettivi, anche da un punto di vista spesso taciuto, addirittura ostacolato- quello sessuale. “Il sesso è un’espressione del nostro essere, della nostra identità”, ha sostenuto l’avvocato Brucale. Anche la dottoressa Valeria Marino, magistrato di sorveglianza di Livorno, ha insistito sull’affettività come momento importante del percorso rieducativo. “Impedire il rapporto umano per un periodo di tempo lungo ha fortissime conseguenze desocializzanti” ha sostenuto “Bisogna dare la possibilità al carcere di agevolare i luoghi d’affettività, sia per gli uomini che per le donne”.