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di Umberto De Giovannangeli

L’Unità, 11 febbraio 2024

“La vicenda del Mar Rosso compromette il collegamento tra il nostro Paese e i grandi mercati asiatici ed estremo-orientali. L’Ucraina? È una guerra che stiamo perdendo, tutto ciò che accade va contro i nostri interessi. Pensiamo sempre che nessuno possa avercela con noi, ma Mosca ci considera ostili: le armi con cui sparano ai soldati russi sono anche italiane. Marginalizzati in Ucraina. Ininfluenti nel Mediterraneo. Spettatori in Medio Oriente. L’Italia nel mondo. A darne conto è Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica.

“Stiamo perdendo la guerra. Medio Oriente e Ucraina in fiamme. L’Italia paga il conto ma non conta”. È il titolo del volume di Limes da oggi nelle edicole e librerie. Perché stiamo perdendo la guerra?

La stiamo perdendo perché tutto quello che sta accadendo intorno a noi va contro i nostri interessi e la nostra sicurezza. Mi riferisco in particolare alla guerra in Ucraina. Noi non siamo consapevoli di essere di fatto, anche se non di diritto, in guerra con la Russia, che ci considera, vedi la recente intervista dell’ambasciatore Paramonov, un paese nemico. E qui scatta un riflesso di natura parapsicologica che un po’ contraddistingue noi italiani.

Vale a dire?

L’idea, o forse è meglio dire l’illusione, che noi siamo “buoni” e che nessuno può avercela con noi. Che non abbiamo nemici. Ora l’ambasciatore di un paese in guerra, la Russia, ci dice apertamente che Mosca ci considera “ostili”, perché le armi con cui sparano contro i soldati russi sono anche italiane. Noi abbiamo investito in Ucraina importanti risorse finanziarie, diplomatiche e anche militari. Gli ucraini si difendono anche con armi italiane. Per motivi che ancora non so o forse non voglio spiegarmi, abbiamo posto il segreto di Stato sugli armamenti che stiamo fornendo all’Ucraina, quasi ce ne vergognassimo. Sarebbe forse il caso di essere più chiari sulla nostra collocazione, sulle risorse che impegniamo e sul senso di quello che facciamo. In Italia c’è ancora la sensazione di vivere in una sorta di isola protetta, nella quale l’esito della guerra in Ucraina non avrà alcun impatto. Niente di più lontano dalla realtà. Dico questo soprattutto considerando che comunque finisca la guerra in termini militari, dopo avremo un compito immane.

Quale?

Quello di aiutare l’Ucraina a ricostruirsi, perché l’alternativa è che diventi un enorme buco nero, in parte controllato da organizzazioni criminali, sotto schiaffo russo e senza nessun tipo di prospettiva, considerando anche il collasso demografico che ha subito in questi anni. Tutto ciò avrà dei costi anche economici assolutamente esorbitanti di cui si preferisce non parlare. Spero di sbagliarmi, ma temo che il tutto finirà con la distruzione dell’Ucraina più che con la vittoria della Russia. Avremo una diaspora degli ucraini e questo avrà ripercussioni anche in Italia. La Russia vorrebbe conquistare tutto il territorio sul mar Nero fino a Odessa. Questo potrebbe avvenire in più fasi. L’Ucraina, quando ebbe l’indipendenza, contava 51 milioni di abitanti, oggi ne ha 28. Sarà già tanto se l’Ucraina potrà rimanere un Paese candidato a entrare nella Ue.

L’altro fronte caldo è quello mediterraneo-mediorientale...

Lì è in gioco strettamente la nostra esistenza. Nel senso che l’Italia ha bisogno che i mari che la connettono agli oceani, e cioè il Mediterraneo e il Mar Rosso, siano aperti alla libera navigazione. Da molto tempo si assiste, non solamente nel Mar Rosso, a una competizione tra varie potenze per controllare questo mare, nel quale dopo la guerra in Ucraina sono penetrati in profondità anche i russi. I cinesi c’erano già. La vicenda del Mar Rosso, gli attacchi dei Houthi e quant’altro, mettono in discussione il collegamento tra il Mediterraneo e l’Oceano indiano, cioè il Pacifico, il che significa il collegamento tra l’Italia e i grandi mercati asiatici ed estremo-orientali. Tutto questo è evidentemente molto pericoloso dal punto di vista della nostra sicurezza e anche da quello dell’economia per un paese che non ha materie prime e che ha necessità di esportare. L’Italia - non può continuare a non preoccuparsi delle sue frontiere, affidandosi totalmente agli altri. I russi sono in Cirenaica. I turchi in Libia e Tunisia. Cosa faremo, se la Russia costruirà una sua base a Tobruk, come ha già fatto in Siria?

Cosa c’è dietro questa sconfitta a 360 gradi. Carenza di leadership, mancanza di una visione strategica o cos’altro da parte dell’Italia?

C’è innanzitutto un tabù culturale che non ci permette di considerare il mondo qual è. E ci confina in una posizione apparentemente gradevole ma che non ha a che fare con i cambiamenti che sono in corso nel mondo, cambiamenti che avvengono ormai sempre più apertamente a mano armata. Viviamo ancora nel tempo della pace che si presumeva eterna, dopo la Seconda guerra mondiale, e non ci rendiamo conto che questo tempo è finito per una serie di ragioni in cima alle quali c’è la crisi del numero uno, la crisi dell’America, che comporta a cascata la crisi del sistema occidentale al quale apparteniamo. La crisi dell’America sullo scacchiere internazionale. Questo sembra riflettersi soprattutto nella catena di fallimenti che ha caratterizzato le missioni del segretario di Stato americano, Antony Blinken, in Israele. La capacità americana d’influenzare Israele è veramente minima, e soprattutto lo è paragonandola a ciò che fu. Oggi Blinken è costretto a delle figuracce diplomatiche che derivano proprio dall’incapacità americana di convincere Israele dei propri argomenti. Questo è forse l’esempio più plastico della crisi del sistema a guida americana.

Un recente numero di Limes titolava Israele contro Israele. Si può dire che oggi a vincere è l’Israele ultranazionalista, quello che invoca la rioccupazione di Gaza?

Diciamo che è l’unico orizzonte strategico di cui dispone oggi Israele. Israele si è messo nelle condizioni non di vincere ma di stravincere questa guerra, il che dal punto di vista della sua parte più estrema significa far coincidere lo Stato d’Israele con la Terra d’Israele. Il che vuol dire, ancora più specificatamente, che la gran parte della popolazione palestinese, in un modo o in un altro, deve essere evacuata, e quando dico in un altro intendo la violenza, e che Israele dovrà annettersi i territori su cui finora esercita un controllo informale, a cominciare da Gaza e dalla Cisgiordania e poi chissà anche al Libano meridionale. Tutto ciò, però, ha una sua logica molto stringente che non corrisponde alle risorse di cui Israele dispone. È un progetto che può affascinare la parte più estrema, ma mi pare non solo quella, della società israeliana, ma che rischia di diventare un boomerang perché Israele non ha i mezzi per realizzarlo, e provando a farlo tende a colpire se stessa.

In altro numero di Limes, dal titolo Guerra Santa in Terrasanta, uno degli incipit è “Israele nella trappola di Hamas”. E ancora così?

Più di prima. Israele ha deciso, per ragioni che non mi sono perfettamente, chiare, di accettare lo scontro impostole da Hamas con il massacro del 7 ottobre. C’erano una quantità di alternative, tra cui quella evocata nell’intervista del generale Eiland nel prossimo numero di Limes (da oggi nelle edicole e librerie, ndr), che era quella di prendere il controllo del corridoio Filadelfi, e basta, e tenere sotto assedio Gaza finché Hamas non avesse liberato tutti gli ostaggi, sulla base di uno scambio di prigionieri, senza dovere entrare a Gaza e fare terra bruciata come invece sta facendo. Ma questa terra bruciata sta diventando, metaforicamente, il rapporto tra Israele e non solamente l’America ma direi quasi tutto il resto del mondo e non credo che sia uno scambio che vada a favore della sicurezza dello Stato ebraico e della diaspora ebraica nel mondo.

E la tanto evocata soluzione dei due Stati?

Non esiste. Dove si farebbe lo Stato palestinese? L’attuale maggioranza di Governo in Israele con Smotrich e Ben Gvir, favorisce sempre più la colonizzazione della Cisgiordania. Non credo che Israele darà vita a una guerra civile contro i coloni, che sono 500mila uomini, spesso armati, allo scopo di creare uno Stato palestinese. Israele ha aiutato Hamas a nascere e crescere in un’ottica anti Arafat. Questa impresa machiavellica si è ritorta contro i suoi ideatori. Il 7 ottobre non sono stati uccisi gli ebrei, ma gli israeliani, arabi e beduini compresi.

A proposito della diaspora ebraica. Negli Stati Uniti, si assiste ad una crescente criticità delle organizzazioni ebraiche più vicine ai Democratici rispetto a quello che viene visto come un eccesso di subalternità, nei fatti, del presidente Biden a Netanyahu. Una criticità che può costargli la rielezione.

Il Partito democratico e Biden sono in una condizione di estrema difficoltà perché qualsiasi mossa facciano verrebbe interpretata negativamente da almeno una buona metà della diaspora. Il problema è che l’America in questo momento calibra le sue azioni o le sue inazioni sulla base del voto di novembre. Fra l’altro, comincia a diventare sempre meno probabile che sia Biden il candidato democratico alle elezioni presidenziali di novembre, il che renderà gli equilibrismi diplomatici attuali dell’America ancor più complicati.

Per chiudere vorrei che tornassimo sul filo conduttore del numero di Limes. Nella prima Repubblica, l’Italia aveva avuto in politica estera una marcata vocazione mediterranea. Oggi resta solo un generico riferimento a generici “piani Mattei”.

Non è la prima Repubblica. Storicamente l’Italia ha sempre avuto come priorità il Mediterraneo perché siamo al centro del Mediterraneo, e quindi la nostra geopolitica doveva concentrarsi su quest’area e cercare di tenerla collegata all’Europa. L’equilibro mediterraneo non è una scelta di questo o quel Governo, ma è la necessità geopolitica di questo paese da quando esiste. Forse sarebbe il caso di ricordarcelo. Quanto poi al “piano Mattei”, non si può avere una opinione su qualcosa che non esiste.