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di Velania A. Mesay

Il Manifesto, 29 dicembre 2023

Dizionario di fine anno. Quando Didier Fassin e Richard Rechtman, antropologo e sociologo il primo e psichiatra il secondo, iniziarono le loro ricerche sulla condizione di “vittima” correva l’anno 2000. A dare un impulso al loro studio fu l’attentato alle torri gemelle che cambiò in forma radicale il significato comune a cui tutti noi alludiamo quando parliamo di vittime

Quando Didier Fassin e Richard Rechtman, antropologo e sociologo il primo e psichiatra il secondo, iniziarono le loro ricerche sulla condizione di “vittima” correva l’anno 2000. A dare un impulso al loro studio fu l’attentato alle torri gemelle che cambiò in forma radicale il significato comune a cui tutti noi alludiamo quando parliamo di vittime. Le loro analisi, raccolte poi nell’Impero del trauma, evidenziavano come il concetto stesso di vittima sia in realtà frutto di un’assimilazione moderna, iniziata con la psicoanalisi prima e con l’elaborazione di alcuni eventi storici poi.

Oggi non vi è stupore se in un luogo in cui avviene un dramma - sia esso un evento tragico come lo scoppio di un conflitto, la caduta di un aereo o un attentato terroristico - vengano inviati, oltre ai medici e alle forze dell’ordine, anche psicologi e psichiatri nel tentativo di curare ciò che la pelle non mostra, ma che in quanto estensione del cervello, col tempo restituisce. La concezione di che “ferita” non è solo quella materiale ma anche quella che si forma all’interno degli spazi della nostra mente, è un traguardo che come società abbiamo raggiunto solo recentemente.

Fino alla prima metà del ‘900 ed oltre, un operaio che subiva un danno e chiedeva per esso un risarcimento o il soldato che domandava un congedo, venivano guardati sotto la lente di quella che i due autori chiamano “illegittimità”, ovvero di sospetto, in quanto la vittima non era riconosciuta come tale. A cambiare l’immaginario moderno sul significato di vittima ha contribuito, in primis, l’elaborazione della Shoah, che grazie alle testimonianze dei sopravvissuti ha fatto di quella che è stata un’esperienza individuale un dramma collettivo, riconosciuto anche da chi non l’ha subito e/o vissuto.

Primo Levi scriveva: “so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità”.(1)

Queste parole, rimaste in eredità ai posteri, hanno imposto una riflessione volta a scernere laddove qualcuno avanzava possibilità di negazione o mistificazione di quanto accaduto. Prime braci del cortocircuito postmoderno che viviamo ancora oggi: dimostrare di essere vittima.

Lungo gli anni ‘70 con il ritorno dei soldati dal Vietnam numerose famiglie statunitensi dovettero affrontare i comportamenti autodistruttivi dei reduci. Lo stress psicofisico ai quali essi erano stati sottoposti produsse un numero altissimo di suicidi. Alle famiglie si cominciò a mandare in ausilio equipe mediche formate da psicologi e psichiatri, parallelamente si formarono le prime associazioni che riconoscevano che il trauma del singolo poteva incidere sulla collettività; il trauma non doveva più essere nascosto o negato, bensì si incoraggiava i reduci a parlarne e i famigliari a segnalarlo.

Così arriviamo al 2001 e al terzo evento che muta la percezione del concetto di vittima. L’attentato alle torri gemelle è secondo i due autori l’evento che sancisce l’inizio dell’epoca contemporanea in cui domina quella che loro chiamano la “politica del trauma”. La vittima è considerata tale in base “all’identificazione che sono in grado di percepire i responsabili politici, gli attori umanitari, gli specialisti della salute mentale rispetto al distanziamento che suscita l’alterità dell’altro, cioè la loro prossimità culturale, sociale e, forse, anche ontologica; e la definizione a priori della fondatezza della loro causa, della loro sventura, della loro sofferenza cosa che presuppone evidentemente una valutazione politica e, spesso, etica. Quindi il trauma reinventa, all’insaputa dei suoi sostenitori, le vittime “buone” e “cattive” o, quantomeno, delle scale di legittimità tra le vittime”. (2)

In nome delle vittime si è giustificata la risposta americana agli attentati dell’11 settembre. In nome delle vittime si sono prodotte altrettante vittime. Nuove ferite per colmare ferite passate in un comune illudersi che per cicatrizzare il proprio vi sia bisogno di ferire l’altrui.

“Vittima” è dunque quello sfondo ideale per il quale si combatte una battaglia ideologica, luogo di incontro e di scontro per i decisori politici e di un’opinione pubblica che subisce o contribuisce nella catalogazione del buono e del cattivo.

Oggi, in Occidente, la personificazione della vittima contemporanea è stata assegnata alle persone migranti. Esse sono sotto tutti i punti di vista vittime o sono state, di fatto, rese tali: non solo perché costrette a lasciare il loro luogo natale a causa di agenti esterni ed interni, ma anche e soprattutto perché, il loro percorso migratorio è quasi sempre ostacolato da trattamenti disumani che conducono fino al sacrificio della vita stessa. Vittime principalmente di una politica che concede ad alcuni il lusso di potersi muovere e ad altri invece la mobilità viene negata, preclusa, impedita. E quando si sopravvive lungo l’odissea che dovrebbe terminare in un luogo sicuro, quest’ultimo si tramuta in nuova gabbia dove i valori e i diritti di cui tanto il nostro continente si vanta, vengono nuovamente negati. Aldilà di queste annotazioni, note oramai a tutti, sorgono delle domande che ruotano attorno alla sfera della descrizione delle migrazioni nel linguaggio pubblico.

È lecito domandarsi se vi è un sottile rischio a cui andiamo incontro quando queste persone vengono rappresentate solo sotto il profilo di vittime? Interrogativi consumati e ritenuti non prioritari, come chiedersi se la vittima vuole essere definita tale, giocano una partita importante con l’avvenire in quanto l’ossessività del raccontare solo la vittima ha come risultato finale quello di eludere chi rende la vittima tale.

E ancora, la vittima vuole essere descritta solo per quel segmento di esperienza che l’ha resa vittima, escludendo tutto il resto che compone la sua esperienza da essere umano?

Nel caso del racconto mediatico delle migrazioni la necessità di sensibilizzare il pubblico, spesso ignorante o avulso a ciò che avviene nei luoghi di frontiera, ha coinciso con una narrazione dove la protagonista è stata la pornografia del dolore altrui. Le lacrime, le cicatrici, le ferite materiali ed immateriali sono divenute pane quotidiano, unico alimento possibile per far digerire le ingiustizie che uomini e donne stavano e stanno tutt’ora subendo per raggiungere la fortezza Europa. Se la descrizione del reale si deve avvalere anche di questo materiale, è tanto vero che però questo linguaggio ha prodotto negli ultimi trent’anni più divisione che unione.

Se si ricercava l’empatia si è invece prodotta apatia, ignavia, disinteresse. A volte una pericolosa diffidenza. L’uso delle immagini che ricerca nella violenza l’unico mezzo per accattivarsi l’audience ha reso questo sempre più insensibile e distratto. La sofferenza, sentimento presente in ogni storia di migrazione, non dev’essere omessa dal racconto ma non può diventarne l’unico interprete né l’antagonista che nasconde le individualità e le singole storie fino a cristallizzarle in masse e numeri.

Quello che ingenuamente si è pensato essere un “dar voce” alle persone migranti in realtà, in molti casi, è stato un soffocare parte di queste voci, un sostituirsi a loro con uno sguardo colonizzato e colonizzante. Questa narrativa ha plasmato non solo il racconto mediatico ma anche quello di una buona fetta del mondo umanitario che con spot, foto e video cerca di attirare l’attenzione di donatori e società civile. In un’intervista durante una presentazione del suo libro “I Buoni” Luca Rastello affermava: “Quando la relazione di aiuto si istituzionalizza, l’aiutato diventa utente. E se sei utente appartieni alla categoria nel nome di cui si parla ma che non parla, che deve essere riconoscente, che presta la sua voce ai suoi rappresentanti, deprivato di cittadinanza, consegnato per tutta la vita alla relazione di aiuto”. Rastello, per primo, si era accorto delle contraddizioni in seno al terzo settore e si era sforzato per superare quella logica descrittiva dove la vittima veniva riconosciuta solo attraverso la categoria della consacrazione del dolore. Restituire un quadro complesso che superi gli stereotipi implica una ricerca profonda e lo studio di un nuovo linguaggio che permetta che parole come “migranti” o “vittima” non rimangano delle gabbie all’interno delle quali si rinchiudono concetti e persone, degli spazi limitanti e limitati, dove l’altro esiste solo in funzione del nostro “io”.

1 P. Levi, Sommersi e salvati, Einaudi, Torino 1991, p. 34.

2 D. Fassin e R. Rechtman, L’impero del trauma, Meltemi, Milano 2020, p. 408.