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di Laura Vincenti

Corriere della Sera, 24 giugno 2023

Lo scrittore è voce narrante nel podcast dedicato al gangster. “Quando l’ho incontrato mi ha regalato un cd del gruppo musicale con cui suonava e mi ha detto: una volta avevo una banda, adesso una band”. Scomparso a Verbania dieci anni fa, Luciano Lutring è nato nel 1937 a Milano, in via Novara, dove i genitori avevano un bar. Era soprannominato “Il solista del mitra” perché era solito nascondere un fucile mitragliatore nella custodia di un violino, che suonava fin da bambino. È considerato l’ultimo rappresentante della mala romantica milanese, quella che non uccideva e che ruotava intorno a osterie, ristoranti e case di ringhiera. Gli sono stati attribuiti circa 200 colpi, tra i più spettacolari quello del 1964 in via Monte Napoleone con i Marsigliesi. Come racconta “Lutring: il maestro della rapina”, podcast appena uscito sulla piattaforma Audible.it, scritto da Matteo Liuzzi e narrato dallo scrittore Carlo Lucarelli.

Lo ha conosciuto?

“Sì, l’ho anche intervistato per “Milano Calibro 9”, una puntata del mio programma tv Blu Notte. Era simpaticissimo, oltre che un gangster era un “gagster”, uno che faceva un sacco di gag, di battute. Quando l’ho incontrato mi ha regalato un cd perché aveva un gruppo musicale con cui suonava e mi ha detto: una volta avevo una banda, adesso una band!”

Qualche altro aneddoto?

“Uscito di prigione, quando ormai aveva saldato i suoi debiti con la giustizia, viveva in un paesino: un giorno va in banca per un’operazione e parcheggia in doppia fila. Arriva un vigile che lo ferma e gli chiede: ma quanto tempo ci mette? Lutring risponde: una volta due minuti, adesso non lo so, devo fare la fila. Ho conosciuto Lutring sia come persona che come personaggio: era molto divertente, certo anche un criminale”.

Ce lo racconta?

“Un tipo della malavita ma con tutte le attenuanti. È stato un rapinatore, uno che sparava anche se cercava di non farlo: aveva un suo codice d’onore e ha avuto la fortuna di non uccidere nessuno, e di non far quasi mai del male a qualcuno. Era un ladro, non si può negare, ma anche gentiluomo nel senso che rispettava delle regole. Anche Vallanzasca a modo suo era gentiluomo, ma Lutring era diverso perché credeva che il suo fosse un mestiere, non pensava a guadagnare e basta. Nelle sue regole c’era non andare in giro a far del male o con le armi cariche, tranne negli ultimi anni quando qualcosa è successo”.

Qualche altra sua caratteristica?

“Era un perdente. Lo abbiamo sempre visto bastonato, arrestato dalla polizia. Rispetto alla mala vincente come la mafia che fa le regole, lui apparteneva a un’altra mala destinata a perdere, perché sei tu, un singolo ribelle contro il sistema, contro lo Stato. Queste sono attenuanti per cui Lutring ci sta simpatico, nonostante fosse un criminale, ovviamente”.

Nel podcast ci sono tanti interventi, anche dello stesso Lutring che racconta la sua vita e parla in dialetto. Lei conosce Milano? Le piace?

“La conosco ma non così bene come i miei colleghi che scrivono di noir e infatti io non ambienterei mai un mio romanzo in questa città, non ne sarei in grado. Però mi piace molto: la cosa bella del podcast è che grazie anche ai tanti contributi ci fa conoscere la Milano dell’epoca, quella del boom economico, dei romanzi di Scerbanenco che mi hanno fatto apprezzare la città in tutti i sensi. Vivere qui? No, perché vivo nella città più bella del mondo: Bologna! Ma ci verrei comunque a stare per un bel po’.

Il tema della criminalità è tornato dominante nelle cronache cittadine…

“Una delle cose interessanti della storia di Lutring è che lui racconta il passaggio di un’Italia appena uscita dalla guerra, che aveva visto delle cose tremende. Però era un Paese ancora arcaico, contadino, legato a certi valori del passato. Non che fossero migliori, ma erano diversi, meno veloci, meno rapidi”.

E poi?

“Poi arriva la mafia. Cosa nostra e la ‘ndrangheta cambiano tutto, così come la droga negli anni 80 cambia tutto, significa vivere a un altro livello e velocità e soprattutto con una spietatezza diversa. Significa spararsi, ammazzare la gente, i poliziotti. Ecco, io credo che poi la criminalità si sia un po’ calmata: adesso siamo tornati a brutti livelli perché sono livelli nuovi”.

Ovvero?

“La criminalità è figlia di un disagio sociale, di sacche di povertà, di giovani che hanno avuto il problema della pandemia e sono stati trascurati: le baby gang, per esempio, sono fenomeni da studiare non solo da reprimere, abbiamo ancora tanto da fare”.

I casi di cronaca nera sono sempre molto seguiti dal pubblico: come mai?

“Per tanti motivi, uno è istintivo: le cose eclatanti, che fanno paura, ci colpiscono e non ci lasciano indifferenti. Quindi quando succede qualcosa di nero, subito ci giriamo a guardare. La cronaca nera è un fatto che è avvenuto e se è avvenuto ci sono dei motivi. Se hanno ammazzato qualcuno o è sparita una bambina non è per farmi passare mezz’ora davanti alla tv, significa che esiste disagio. Ecco che la cronaca diventa non solo accattivante ma anche importante da seguire e raccontare, ma va fatto bene”.

Il podcast come strumento per narrare storie piace sempre di più, perché?

“La sua forza, che può essere una debolezza, è quella di essere solo ascoltato, è il rapporto diretto tra la voce e chi la sta sentendo: le parole diventano molto intense. Però dentro quelle parole deve esserci anche un racconto. Non basta registrare un testo al microfono”.