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di Niccolò Nisivoccia

Il Manifesto, 25 novembre 2023

Come rispondere alle ingiustizie? Come rimettere a posto le cose, quando le cose abbiano perso il loro posto, il loro presunto ordine nel mondo? Come rispondere alle istanze di riconoscimento che qualunque domanda di giustizia presuppone, e che ogni ingiustizia mette in crisi? Le norme contenute nel “Pacchetto sicurezza” approvato dal Cdm inducono a porsi la medesima domanda che l’Alta Scuola Federico Stella sulla Giustizia Penale ha rivolto, a fine ottobre, ai partecipanti al primo incontro del suo nuovo ciclo su “Giustizia e letteratura”: “Ma come rispondere diversamente?”. È la domanda che si pone Gertrude, nei “Promessi sposi”, davanti alle insistenze della famiglia che la vuole monaca contro la sua volontà, e che in realtà sono violenze vere e proprie. Tutti la riempiono di lusinghe: e lei capisce che ogni sua risposta costituisce un passo in avanti sulla strada che la sta conducendo verso il convento, dove diventerà la “monaca di Monza”. Scrive proprio così, Manzoni: “Sentiva bene che ognuna delle sue risposte era come un’accettazione e una conferma”. Per poi aggiungere, appunto: “Ma come rispondere diversamente?”.

Certo il contesto da cui proviene sembrerebbe non aver niente a che vedere con il diritto. Eppure è una domanda che anche il giurista può fare propria, chiedendosi: come rispondere alle domande di giustizia di cui ciascuno di noi è portatore? Come accoglierle? Come deve porsi il diritto davanti alle domande di chi ne chiede l’intervento perché sente di averne il bisogno? Oppure: come rispondere alle ingiustizie? Come rimettere a posto le cose, quando le cose abbiano perso il loro posto, il loro presunto ordine nel mondo? Come rispondere alle istanze di riconoscimento che qualunque domanda di giustizia presuppone, e che ogni ingiustizia mette in crisi?

Le norme del “Pacchetto sicurezza”, da quella contro le borseggiatrici incinte o madri di bambini piccoli a quella sulla resistenza ai pubblici ufficiali, sembrano esprimere l’idea secondo la quale l’unica risposta possibile a queste domande sarebbe quella regolata da una visione esclusivamente verticale e punitiva del diritto e delle norme che lo compongono. È l’idea del “pugno duro”, come ha già scritto Riccardo De Vito su queste stesse pagine, che del resto a sua volta corrisponde alle logiche culturali ormai dominanti: è la realtà che abbiamo davanti agli occhi. Come se, ormai, il diritto potesse riguardare solo i rapporti fra i cittadini e l’Autorità; come se la Legge potesse solo calare dall’alto, come una minaccia o come una sanzione nei confronti dei suoi destinatari. Come se il diritto potesse o dovesse avere solo una natura intimidatoria, e non potesse darsi al di fuori di tale natura; come se alle norme si potesse o dovesse obbedire solo per timore di subire le conseguenze derivanti dalla loro inosservanza, e come se, davanti alla scelta fra obbedire o non obbedire, ciascuno fosse chiamato a fare i conti solo con sé stesso: se obbedisco mi salverò, se disobbedisco andrò incontro alla punizione. È come se ormai non riuscissimo più neppure a concepire l’idea di una possibile dimensione alternativa dei rapporti: orizzontale anziché verticale, relazionale anziché solipsistica e conflittuale.

E qui a venire in gioco non è soltanto il diritto, ma una concezione piuttosto che un’altra del vivere sociale, come spiega ad esempio Tommaso Greco in un suo piccolo ma preziosissimo libro di due anni fa da Laterza, “La legge della fiducia”. Non a caso ciò che propone Greco nel suo libro è la costruzione di un diritto votato proprio alla “fiducia”, anziché alla sfiducia, alla solidarietà anziché all’esclusione. Sul presupposto che proprio questo sia ciò che il diritto vuole da noi: di fidarci gli uni degli altri.

Chiedersi “Ma come rispondere diversamente?” significa, allora, chiedersi anche se non sia possibile immaginare un diritto che, al di là dello stabilire o ristabilire torti e ragioni, sappia restituire fiducia a chi gli si rivolge; che sappia accogliere, per usare le parole di un grande libro di Stig Dagerman, “il nostro bisogno di consolazione”. E cioè la nostra aspirazione alla felicità, a vivere insieme agli altri da noi senza sopraffazioni. Un diritto che sappia contenere il nostro bisogno di giustizia, la quale è sempre molto di più rispetto al diritto stesso.

Quando invochiamo una norma, non è per se stessa ma per ciò che quella norma rappresenta: uno strumento attraverso il quale potrà esserci resa giustizia. È la giustizia che vogliamo, e poco importa quale sia la norma attraverso la quale possa esserci riconosciuta: è alla giustizia che aspiriamo, non all’applicazione di una norma quale che sia. Ma cos’è la giustizia, in primo luogo, se non uno spazio nel quale ciascuno riesca a percepire come ben riposta la propria fiducia nei confronti degli altri? O nel quale questa fiducia possa essere ricostruita, quando sia stata lesa? Eccedere nelle punizioni genera tutt’altro che fiducia e sicurezza: genera soltanto un vuoto di senso, alla fine, se è vero che la funzione naturale delle norme dovrebbe essere quella di contribuire a costruire relazioni sociali in una dimensione collettiva, di convivenza, di scambio reciproco delle esistenze. Quel che è certo è che, al di là di qualunque aspirazione ordinatrice e repressiva, la vita non si lascerà mai né imbrigliare né spaventare a sufficienza.