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di Raffaele K. Salinari

Il Manifesto, 13 settembre 2023

Motivazioni di un pm. Sulla motivazione “culturale” con la quale il pubblico ministero di Brescia chiede l’assoluzione per il marito di una donna di origini bengalesi. La Procura di Brescia si dissocia e “ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento ‘culturalè, nei confronti delle donne”. Lo scrive in una nota il procuratore Francesco Prete riguardo la motivazione “culturale” con la quale il pubblico ministero di Brescia chiede l’assoluzione per il marito di una donna di origini bengalesi, ora cittadina italiana, che lo aveva denunciato per trattamenti che la facevano sentire di fatto una schiava.

Partendo da questo caposaldo, bisogna però dire che fatti sono in evoluzione dato che si è ancora in attesa dell’udienza che concluderà il processo ad ottobre. Nel frattempo il PM ha depositato le proprie conclusioni, in cui si articola la richiesta di assoluzione dell’imputato perché questo “avrebbe agito in base alla propria cultura e non per la volontà di sottomettere la donna”. E continua: “i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia della medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura e che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”, l’”accettazione” essendo riferita al matrimonio combinato in patria.

Ora qui si aprono due ordini di questioni: la prima riguarda gli obblighi che il nostro Paese ha accettato sottoscrivendo la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Adottata dall’Onu nel 1979, è stata ratificata dall’Italia nel 1985; ordine d’esecuzione dato con legge 14.03.1985 n. 132 tuttora in vigore.

Per andare nello specifico, ne citiamo soltanto una parte dell’articolo 15: “1. Gli Stati parte devono riconoscere l’uguaglianza tra uomini e donne di fronte alla legge. 2. Gli Stati parte devono riconoscere alle donne, in materia civile, una capacità giuridica identica a quella degli uomini e le stesse opportunità di esercitarla. In particolare vanno riconosciuti alle donne uguali diritti di concludere contratti e amministrare proprietà ed un uguale trattamento in tutti gli stadi del procedimento giudiziario. 3. Gli Stati parte convengono che ogni contratto e ogni strumento privato, di qualunque tipo esso sia, avente un effetto giuridico diretto a limitare la capacità giuridica delle donne, deve essere considerato nullo”.

Qui appare chiaro, come giustamente fa notare la procura di Brescia nella sia nota di dissociazione, che non esiste e non può esistere, nessuna “eccezione culturale”, che rimetta in discussione questi principi, pena non solo una palese contraddizione con una legge nazionale che deriva direttamente dal Convenzione, ma la rimessa in discussione dell’impianto multilaterale e dunque erga omnes, della stessa.

Una seconda questione, altrettanto importante, concerne la visione delle culture altre. Ora, se si entra in questo ordine di idee e si estrapolano, mettendoli al centro di quella cultura, solo alcuni dei suoi aspetti, si rischia una stigmatizzazione che soffoca i lati dinamici che esistono in ogni cultura e la si “raffredda”, secondo una vecchia divisione strutturalista tra culture “fredde” e “calde”. Anche se qui non è certo il caso di aprire questo dibattito, appare chiaro come la posta in gioco sia nulla di meno che il potenziale processo che un Paese come il nostro sta o dovrebbe seriamente affrontare per creare una società realmente multiculturale, in cui ogni provenienza si trasforma ed allo stesso tempo viene trasformata.

Siamo fatti di Natura e di Cultura, ed imparando dalla biologia, abbiamo capito che la Vita, nella sua accezione più ampia, vive di diversità e di ricombinazioni. Se ad una cultura viene negata questa capacità evolutiva, trasmutativa, si perde una opportunità, la si isola, se ne fa una alterità irriducibilmente diversa e non complementare. Così l’intero tessuto sociale si impoverisce, un’altra povertà di cui non abbiamo bisogno.