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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 21 novembre 2023

Rinascita-Scott di Gratteri finisce con 131 assoluzioni, si tratta di vite e carriere spezzate. Undici anni di carcere a Pitteli, simbolo del processo. Sentenza storica proprio no, quella emessa nella maxi-aula di Lametia per il processo “Rinascita Scott”. Certo, c’è la bandierina simbolica della condanna a 11 anni di carcere per l’avvocato Giancarlo Pittelli, ma è appunto poco più che una sagoma di cartapesta, e non c’è bisogno di ricordare Enzo Tortora e i tanti condannati al primo processo e poi assolti in appello.

Ma i numeri parlano chiaro: 131 assolti su 338 vuol dire non solo che circa il 39% delle persone arrestate nel famoso blitz del 19 dicembre 2019 era composto di innocenti, ma anche che pm e gip non hanno fatto bene il proprio dovere. Perché è detto e scritto in ogni norma, in ogni riforma, e poi nei congressi e nei convegni che si deve andare a processo solo quando si hanno buone probabilità di arrivare a condanne. Se no, oltre a creare gravi danni alla vita delle persone, si fa anche perdere tempo e denaro. E questa non è giustizia. E quella grande aula di Lametia rischia di somigliare sempre più a un set cinematografico. Inoltre la storia della Dda di Catanzaro non brilla per efficienza, dopo l’ultimo fallimento del processo “Stige”, con il 60% delle assoluzioni tra primo e secondo grado.

L’aspetto più scandaloso di questo processo è quel che è accaduto fuori dall’ aula. Ancora oggi era tutto un tripudio mediatico perché con questa inchiesta sarebbe stata scoperta la saldatura tra ‘ndrangheta e mondo della politica. Ma è proprio questo il punto debole di questo processo. Perché per esempio un personaggio di grande rilevanza politica come Gianluca Callipo, ex sindaco di Pizzo e responsabile regionale dell’Anci, l’associazione dei comuni calabresi, dopo aver scontato in via preventiva diversi mesi di carcere, è stato assolto. E pensare che il 7 giugno scorso il procuratore Gratteri in persona aveva invocato per lui 18 anni di reclusione. E l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino invece dei vent’anni richiesti dalla Dda per mafia, ne dovrebbe scontare, qualora la sentenza fosse confermata nei successivi gradi di giudizio, uno e mezzo per traffico di influenze, piccolo reato evanescente. Non è un mafioso, quindi.

Ma non lo è neppure l’avvocato Giancarlo Pittelli, come lui stesso ha detto e ridetto al processo. La sua condanna è legata alla presunta diffusione dei verbali del “pentito” Mantella, su cui, come ricordano i suoi legali Giandomenico Caiazza, Salvatore Staiano e Guido Contestabile “solo pochi mesi fa la Corte di Cassazione prima e il Tribunale per il riesame dopo, avevano escluso la sussistenza anche solo di indizi gravi di colpevolezza”. È tutto così scontato, ed era anche così prevedibile la condanna simbolica del fiore all’occhiello di tutta l’inchiesta, che lo stesso avvocato ex ex parlamentare di Forza Italia non se la sente di dare giudizi (“non sono abituato a commentare le sentenze”), se non per lasciare “agli sciacalli di turno”, il compito di “sbandierare le proprie opinioni nelle tv nazionali e locali”.

Ovvio che non allude al procuratore Gratteri, lui non va mai in tv. In molti in questi mesi hanno criticato le modalità di composizione del tribunale e la giovane età, soprattutto professionale, della presidente Brigida Cavasino e delle due giudici laterali Claudia Caputo e Germana Radici. Si è detto che mai avrebbero trovato il coraggio di contraddire la Dda di Catanzaro e colui che fino a poco tempo fa l’aveva presieduta, Nicola Gratteri. Un personaggio di grande visibilità, non cercata ovviamente, un magistrato che viene ospitato spesso e volentieri da giornalisti e conduttrici ossequiosi, e che gira l’Italia con i suoi numerosi libri editi da Mondadori, uno che non ha paura di irridere le riforme. E quando dice nelle conferenze stampa “abbiamo arrestato presunti innocenti”, tutti pensano che le persone cui lui ha contribuito a far mettere le manette siano in realtà tutti colpevoli. Abbiamo visto che non è così, e i 131 assolti di questo processo sono lì a dimostrarlo. Oltre ai tanti dimezzamenti di pena.

Poi, se qualcuno si aspetta il totale degli anni per tutti gli imputati, vada a leggere Travaglio, lì c’è, ma sappia che da queste parti quel totale non lo avrà mai. Perché chi fa quel calcolo per sparare come pallottole titoloni con numeri pieni di zero non rispetta la Costituzione, per cui “la responsabilità penale è personale”. Poi, se si vuol sapere se gli uomini delle cosche sono stati castigati dalla sentenza di primo grado, possiamo guardare le pene più alte comminate, come i 30 anni di carcere per Saverio Razionale o i 28 per Paolo Lo Bianco. E non siamo neanche in corte d’assise, qui non ci sono i reati di sangue, ma è sempre l’articolo 416 bis del codice penale a innalzare le pene.

Il procuratore vicario della Dda di Catanzaro Vincenzo Capomolla non si sbilancia nel commento, come sicuramente avrebbe invece fatto il suo predecessore: “È stata dimostrata -dice-la contaminazione che la ‘ndrangheta vibonese esercita sul territorio”. Ma tutto sommato ha in mano solo lo scalpo di Giancarlo Pittelli. E sa bene che in appello, lontano dai riflettori e dalle grida sulle “sentenze storiche”, le carte vengono esaminate con maggiore cura, e che poi la stessa cassazione difficilmente potrà smentire se stessa. Entro due anni si dovrà celebrare l’appello, se no le carceri calabresi si svuotano per prescrizione. Ci sarà da lavorare per i 600 avvocati difensori che in questi anni hanno popolato la maxi-aula di Lametia. Ma anche per la procura “antimafia”, perché la sua teoria sulla “zona grigia” che sostiene la ‘ndrangheta dall’esterno è sempre più traballante.