sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Rosaria Manconi

La Nuova Sardegna, 18 maggio 2022

L’ultima volta che i magistrati hanno incrociato le braccia risale al 2010 quando avevano protestato contro la manovra economica varata dal governo Berlusconi che, prevedendo una riduzione del 30% delle loro retribuzioni, a loro parere sviliva la dignità e l’indipendenza della funzione giudiziaria. Sarà che il provvedimento andava ad incidere sulle loro tasche, non propriamente vuote, all’epoca aveva aderito allo sciopero oltre l’80% delle toghe. Ironia della sorte, allora il presidente dell’Anm era proprio quel Luca Palamara che successivamente avrebbe scoperchiato quello sconcertante sistema clientelare con il quale venivano pilotate e spartite fra le correnti le nomine negli uffici giudiziari. Uno scandalo senza precedenti.

Da qui la necessità di una riforma in grado di recuperare credibilità e di cambiare le regole interne e i metodi di elezione dei membri del Consiglio superiore. Opportunamente sollecitata dal Capo dello Stato, la politica ha scritto la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Timida e parziale fin che si vuole ma comunque un primo passo verso il cambiamento. Senonché la riforma non è piaciuta al sindacato delle toghe che ha indetto per il 16 maggio una giornata di astensione, motivata dal fatto che i provvedimenti approvati non accorciano di un solo giorno la durata dei processi, impongono una figura di magistrato non libero di giudicare serenamente, gerarchicamente subordinato, impaurito per effetto di quel controllo quantitativo e qualitativo cui è sottoposto. Insomma una riforma ispirata «da una logica punitiva» ed in contrasto con «la nostra splendida Costituzione».

Queste belle affermazioni di principio non hanno convinto evidentemente neppure il 60% degli aderenti all’Anm che hanno sconfessato il deliberato del sindacato rimanendo seduti ai loro posti di lavoro. Tutti d’accordo comunque nel ritenere che alla base della riforma ci sarebbe la volontà politica di snaturare la funzione giurisdizionale. Chi si aspettava, quindi, che la magistratura dopo le rivelazioni di Palamara, avrebbe scelto la linea della autocritica e della consapevolezza, si sbagliava. Ma si sbaglia anche chi pensa che dopo il palese fallimento dello sciopero l’egemonia dei magistrati sia finita.

Il fatto che oggi l’Anm abbia un evidente problema di rappresentatività della categoria non può fare ritenere che i magistrati siano disposti a rinunciare a quei privilegi di cui hanno goduto, e fatto un pessimo uso, negli ultimi trent’anni. È chiaro che non sono i singoli punti della riforma ad avere scatenato la reazione, né che le novità, blande ed insufficienti, introdotte con la riforma siano davvero in grado di mutare un quadro consolidato. La vera partita in gioco per i magistrati è data dal pericolo che possa essere sovvertito quell’assetto che ha posto i poteri dello Stato, costantemente sotto scacco delle Procure, in una condizione di soggezione rispetto al potere giudiziario.

I delicati equilibri che hanno caratterizzato le relazioni tra i due poteri si sono snodati in questi anni su diversi piani. Uno di questi attiene alla prassi dell’affidamento ai magistrati di incarichi extragiudiziari all’interno di Enti pubblici e autorità di garanzia. La seconda, più marginale dal punto di vista numerico ma connotata da una evidente rilevanza simbolica, è quella della partecipazione diretta del magistrato alle attività politiche ed alle elezioni. Tematiche che rappresentano entrambe occasione di potenziale commistione, seppure entro certi limiti consentita dal legislatore, tra magistratura e politica. Per altro verso le storiche indagini “ad orologeria” hanno mostrato una violazione del principio di “alterità” ed indipendenza rispetto al sistema politico, nonché di quello di soggezione dei giudici alla legge. È evidente che la magistratura non ha imparato nulla dalla sua storia e tantomeno dagli errori recenti.

Si rassegnino giudici e pm. La società civile chiede e pretende che i magistrati rendano conto del loro operato e delle eventuali mancanze, che accettino la valutazione sul loro operato ed il voto dei loro superiori e degli avvocati, che rispettino il principio di presunzione di innocenza e sappiano tacere sulle indagini. Rifiutare tutto questo è segno di ingiustificata diffidenza, arroganza, arroccamento su inaccettabili posizioni di intoccabilità.