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di Federico Maurizio d’Andrea

Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2023

Il dibattito italiano recente sulla Giustizia, con le riforme che si susseguono con una celerità che non permette neppure di verificarne la portata, lascia trasparire una fragilità sistemica sulla quale è bene esprimersi perché la Giustizia è, da sempre, il principale termometro per misurare la tenuta della democrazia. Ci si deve chiedere come sia possibile continuare a spingere al ribasso un dibattito che, pure, attiene direttamente al cuore del nostro “stare insieme” e che, per la sua delicatezza e per la sua complessità, andrebbe affrontato senza polarizzazioni ideologiche o semplificazioni.

Le ultime discussioni (per limitarci al penale, tra tutte, quella sul voler ridurre le intercettazioni) evidenziano, purtroppo, non solo un approccio parcellizzato, ma anche (e palesemente) intenti punitivi verso un mondo (quello giudiziario - investigativo) non visto nella sua funzione di garanzia, ma, almeno da parte di alcuni, come un ostacolo (l’unico?) alla onnipotenza di chi esercita il potere politico, a prescindere da chi sia in carica. Il fil rouge che lega le varie iniziative di cui oggi si parla (sempre in campo penale, intercettazioni, eliminazione dell’abuso d’ufficio, restrizioni del traffico di influenze, oltre al sempre verde refrain della separazione delle carriere), infatti, appare rinvenibile in una sorta di esibizione muscolare che tuttavia, pur dando illusone soddisfazioni agli epigoni, non affronta quello che è, e che continuerà a essere, il problema prioritario dell’innegabile cattivo funzionamento del sistema giustizia, rinvenibile in un’autarchica irresponsabilità di un ordine vieppiù chiuso in sé stesso e incapace di riconoscere le manchevolezze e le non idoneità esistenti al proprio interno.

E, in tal senso, il Csm, nel cui ambito siedono anche membri eletti dal Parlamento, avrebbe il dovere di contribuire a creare un ordine giudiziario non solo autonomo e indipendente, ma soprattutto autorevole, nel quale non dovrebbero avere la possibilità di permanere chi si mostra, magari reiteratamente, non adatto a svolgere la più nobile delle funzioni pubbliche (il rendere giustizia, sin dal momento delle indagini). In questo senso, come esempio e senza scomodare il “caso Tortora” (in cui davvero l’Italia perse la faccia), occorre chiedersi come sia possibile che nella magistratura, al pari di quanto avviene nella Pa, tutti o quasi ricevano sempre valutazioni più che positive, con minime sfumature differenziali.

È palese che l’uguaglianza valutativa si traduce in una uguaglianza di ineguali e, alla fine, in un appiattimento che mina l’autorevolezza della magistratura tutta, la cui credibilità, non a caso, è in costante calo (come emerge da tutti i sondaggi). L’egalitarismo, pur principio supremo di democrazia, non può spingersi sino ad abbracciare, di fatto eliminandoli, il merito, la responsabilità individuale, la conoscenza, la dedizione al dovere. Perpetuando la farsa delle valutazioni uniformi, si assiste, ormai da anni e ormai in modo immutabile, a un declino qualitativo che, però, non sembra essere considerato, pur per com’è, un problema sistemico, su cui, viceversa, si dovrebbe intervenire in modo strutturale.

È indispensabile un sostanziale cambio nelle modalità valutative e nelle conseguenti progressioni delle carriere (con particolare riferimento alla scelta dei capi degli uffici), che non dovranno continuare a essere influenzate da appartenenze correntizie, contraddicendo quegli ideali di indipendenza che sono alla base dello svolgimento della funzione giudiziaria. Svolgere in modo indipendente una funzione postula un’indipendenza di comportamento che difficilmente si concilia con l’appartenenza a “correnti” strutturate, con prioritarie finalità spartitorie goffamente camuffate da sbandierati intenti di garanzia di pluralismo, né si concilia con la triste prassi di chi è eternamente “fuori ruolo”.

Questi sono temi non eludibili, perché ne va della credibilità di un’intera istituzione, alla quale, non a caso, oggi si guarda con paura, più che con fiducia. Eppure non può sfuggire che una magistratura sana e credibile è, l’unica, vera tutela dei deboli, altrimenti in balia di abusi e soprusi, che non troverebbero più un limite e, di conseguenza, minerebbero la pacifica convivenza, inesistente senza regole chiare e certezza della loro imparziale applicazione. Non intervenire su questi aspetti di sistema, convogliando l’attenzione dell’opinione pubblica su contesti del tutto parziali, significa solo avallare forme di resistenza al cambiamento e consolidare i rapporti di forza esistenti, nella incapacità di cogliere il senso del triste declino istituzionale.

Lo abbiamo ricordato più volte e non ci stancheremo di sottolinearlo: la magistratura, nella permanenza della propria unitarietà, autonomia e indipendenza, deve essere capace, per il tramite del proprio Consiglio superiore, di proteggersi autorigenerandosi, mediante valutazioni serie ed espellendo non solo chi si macchi di reati, ma anche chi si manifesti inidoneo allo svolgimento delle funzioni. Nella quotidiana ed egualitaria applicazione delle regole, un diritto democratico implica il superamento di quell’insopportabile egocentrismo castale che tanta parte ha avuto, e continua ad avere, nell’ostacolare un (sempre più) corretto convivere.