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di Iuri Maria Prado

L’Unità, 2 gennaio 2024

Denunciano il bavaglio. Ma ciò che imbavaglia l’informazione è esattamente l’abitudine di dar voce all’accusa e propalarne le ipotesi prima che essa sia scrutinata nel processo e con la decisione finale. Se un imprenditore vuole far circolare la notizia che un proprio concorrente è destinatario di un provvedimento cautelare, insomma un ordine di giustizia che interviene prima della decisione definitiva, deve stare molto attento. Deve spiegare su quali premesse è stato emesso quell’ordine. Deve spiegare che è provvisorio. Deve spiegare che è impugnabile. Deve spiegare che può essere revocato. Deve spiegare che la decisione finale potrebbe ribaltarlo. Se non fa tutte queste cose, se fa circolare la notizia senza guarnirla di tutte queste meticolose spiegazioni, di tutte queste specifiche avvertenze, di tutti questi dettagli descrittivi, commette un illecito.

Bene, qual è la giustificazione in base alla quale si raccomanda (anzi si rende obbligatorio) che le notizie riguardanti provvedimenti giudiziari a carico di un’impresa non siano fatte circolare a casaccio, senza quell’apparato di avvisi? È semplice: si ritiene, con buona ragione, che una notizia costituita da un provvedimento di giustizia, o in esso contenuta, abbia nei confronti del cittadino e lettore comune una “particolare efficacia persuasiva”.

Per capirsi: “L’ha detto un magistrato” (che quell’impresa razzola male, che ha fatto turbative di mercato, che agisce slealmente, eccetera), “vuoi forse che se lo sia inventato?”. E proprio per questo, proprio per il naturale affidamento suscitato da una notizia con sigillo giudiziario, si stabilisce che farne comunicazione è possibile solo nel quadro di quelle minuziose precisazioni.

Ora, sarebbe bello capire per quale motivo mai si stabilisca la perentorietà di quei protocolli di comunicazione quando c’è di mezzo un provvedimento cautelare contro un’impresa (un sequestro di beni, un’inibitoria del commercio di articoli contraffatti, un qualsiasi provvedimento che aggredisce la vita aziendale, eccetera), mentre dovrebbe essere libero il volantinaggio delle carte accusatorie in forza delle quali un cittadino è sbattuto in galera.

Valgono meno la reputazione e il diritto di difesa di un cittadino rispetto a quelli di una società commerciale? Chiunque direbbe di no. E invece sì. Se butto fuori un’ordinanza contro un’impresa accusata di contraffazione brevettuale devo fare uno slalom tra tanti di quei paletti che non ti dico; se invece la notizia è che Tizio avrebbe distribuito tangenti e Caio molesterebbe i bambini, buonanotte cautele e completezza dell’informazione.

Ora, il più abusato argomento a favore della libertà di sputtanamento dei cittadini tramite la pubblicazione del verbo togato che li riguarda è questo: che se non fai così, e cioè se non consenti alla redazione di un giornale di farsi copisteria delle procure della Repubblica, allora tu impedisci alla gente di sapere.

Il guaio è che i giornali non fanno il collage delle ordinanze cautelari per far sapere che non sono decisioni finali, per far sapere che potrebbe esserne riconosciuta l’illegittimità, per far sapere che quello messo in galera è un innocente fino a che non si prova il contrario, per far sapere che a dir poco una volta su due l’accusa è infondata, per far sapere che la voce dell’accusa dovrebbe valere quanto quella della difesa e via di questo passo: perché tutti questi sono dettagli tanto fastidiosi da associare alla purezza della notizia giudiziaria, quella secondo cui uno è un ladrone e l’altro un trafficante di droga o di influenze. Denunciano il bavaglio. Ma ciò che imbavaglia l’informazione è esattamente l’abitudine di dar voce all’accusa e propalarne le ipotesi prima che essa sia scrutinata nel processo e con la decisione finale. Reclamano il diritto di imbavagliarsi con le ordinanze.