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di Paolo Comi

L’Unità, 16 dicembre 2023

L’idea che si possa addirittura per legge lasciarsi aperta la porta a intercettazioni preventive di giornalisti mi mette ansia. Preferisco mille volte il rischio per la mia sicurezza mentale di leggere tutte le mattine Marco Travaglio o Piero Sansonetti, che pensarli sottoposti ad intercettazioni per individuarne le fonti. L’intelligence ci deve tutelare dal terrorismo non dalla libertà di pensiero”, afferma Marco Mancini, ex numero due dell’Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna).

Direttore, secondo quanto riferito da alcuni Consorzi di giornalismo internazionale, l’Italia sarebbe però favorevole alle intercettazioni dei giornalisti. Come si spiega una decisione del genere?

Da quello che ho letto, alcuni Stati dell’Unione europea, tra cui oltre al nostro Paese anche la Francia e la Germania, si opporrebbero alla volontà del Parlamento europeo di preservare i giornalisti da intercettazioni motivate dalla tutela della sicurezza nazionale. Non entro nel merito di norme - se la notizia fosse confermata - in corso di valutazione. Su questi aspetti non ritengo opportuno da parte mia intervenire, stante la mia esperienza pregressa di dirigente del controspionaggio che non ha mai discusso delle leggi ma si è limitato a rispettarle. Mi interessa porre invece la questione strategica. Mettere al centro della sicurezza, come fossero il nodo fondamentale per difenderci, le indagini tecniche preventive, tra cui primeggiamo le intercettazioni telefoniche e ambientali, è il limite clamorosamente fallimentare delle attività di intelligence in situazioni di crisi.

Non conviene quindi intercettare i giornalisti?

Non entro nella questione morale e di civiltà, non ho titolo per presentarmi come esperto di etica. Noto che le intercettazioni dei giornalisti non mi pare siano di aiuto a salvaguardare la sicurezza delle democrazie. Le praticano Putin ed Erdogan e, credo, tendano ad assicurarne il loro potere autocratico piuttosto che il benessere dei rispettivi popoli. I due leader che ho citato sono specialisti nel catturare il dissenso ed eliminare gli avversari, con uso di polonio o di carceri e di bombardamenti su popoli riottosi (penso a curdi e armeni del Nagorno Karabak). Sarebbe più interessante mettere il controspionaggio al servizio della caccia agli evasori e all’esportazione di denaro nei paradisi fiscali che non di cronisti. Mi viene in mente quando Oriana Fallaci intervistò Khomeini. Intercettarla sarebbe servito a individuare i canali utilizzati per il contatto con l’imam. Però è stato molto più utile lasciarle fare senza filtri preventivi il suo lavoro. Invece, ad esempio, di intercettare un giornalista come Nello Scavo di Avvenire che ha svelato con i suoi servizi l’orrore dei traffici di essere umani coordinati da alcuni capi della guardia costiera libera, sarebbe il caso che le intelligence e le autorità occidentali imparassero da lui il metodo: essere presenti sul territorio, osservare le cose. Eviterebbero di finanziare gli assassini che si presentano come tutori dell’ordine, perché rallentano le partenze usando la tortura e carceri immonde.

Lei ha parlato di questione strategica per le intercettazioni...

L’enfasi sulle intercettazioni, al punto da intervenire per consentirne l’utilizzo nel lavoro giornalistico, segnala una caduta verticale dell’idea di intelligence e quindi la sua riduzione ad analisi a tavolino di captazioni elettroniche e satellitari.

Insomma, le intercettazioni come sintomo di una cattiva filosofia della sicurezza?

Non è una disquisizione accademica. Ci ricordiamo il 7 ottobre con l’operazione terroristica di Hamas? Hamas non dice niente al telefono, non usa pizzini, i satelliti non segnalano nulla di quel che accade nei grandi tunnel che innervano Gaza. Le informazioni passano a livello di padiglione auricolare. Il livello militare di Hamas non ha trasmesso dati o date, neppure ai sommi capi politici in Qatar. Le agenzie israeliane, che hanno il primato assoluto delle tecnologie spionistiche, sono state spiazzate da mezzi rudimentali, e per questo hanno intonato il mea culpa. Satelliti perfetti sono stati umiliati da aquiloni sospinti da motorini.

Perché?

Ci si è seduti sulla superiorità cyber. Non sono qui a fare la mistica del bel passato antico, ma di attualizzare lo scopo ultimo del lavoro delle agenzie spionistiche.

È quello di cui parla nel suo libro “Le regole del gioco”?

Si.

Quali regole e quale gioco?

Quelle del controspionaggio attivo, dove sia preminente il fattore umano e il controllo democratico. Certo non significa il ritorno al piccione viaggiatore. Ovvio. L’uso delle indagini tecniche preventive, la cui autorizzazione comunque deve essere accuratamente vagliata, ha il vantaggio dell’immediatezza delle informazioni che si ricevono, ma l’appoggiarsi ad esse in maniera predominante atrofizza gli organi dell’intelligence, li riduce alla passività, alla ricettività tecnologica, alla distanza umana. Ciò determina il tramontare dell’essenza stessa per cui l’intelligence è nata, l’esaltazione del fattore umano attraverso le sue vaste possibilità di declinarsi in atto: dall’utilizzo delle fonti, dall’infiltrazione di agenti, e così via. Attività nelle quali in Italia eravamo dei maestri riconosciuti. Rivolgere attenzione esclusivamente all’applicazione della tecnologia, peraltro utilissima in una certa misura, standardizza, mortificando un esercizio come l’intelligence, che si fonda sul pensiero e l’abilità nell’applicazione flessibile dello stesso. Senza valorizzare il fattore umano, le professionalità non si elevano e la qualità della performance in termini di prevenzione alle minacce alla sicurezza nazionale si banalizza nell’attesa, spesso vana se non fuorviante, di un colloquio estemporaneamente captato.

Scusi se torno al tema specifico. Ma chi effettuerebbe poi queste intercettazioni per la “tutela della sicurezza nazionale”. I Servizi?

Ci saranno leggi e decreti attingibili sulla gazzetta ufficiale. Io ora sarei impreciso nel citarli a senso.