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di Gennaro Grimolizzi

Il Dubbio, 13 febbraio 2023

“In passato quando mi indicavano come il medico che ha staccato la spina a Piergiorgio Welby, mi arrabbiavo. Oggi, invece, non ci faccio più caso”. Mario Riccio è da pochi giorni in pensione. È l’anestesista che seguì in prima persona la vicenda di Piergiorgio Welby, aiutandolo a lasciare questo mondo.

Dottor Riccio, sul fine vita si attende l’intervento del Parlamento. Nutre fiducia in questa legislatura?

La passata composizione parlamentare non ha messo mano alla materia, nonostante l’intervento della Consulta nella vicenda di Dj Fabo e Cappato. L’attuale legislatura penso che escluda del tutto la volontà di mettere mano al tema della morte medicalmente assistita. Non dimentichiamoci mai della vicenda di Eluana Englaro. Quello fu uno dei casi in cui assistemmo ad una sorta di conflitto tra istituzioni. In Italia esiste la possibilità dell’assistenza al suicidio nei casi descritti dalla Corte Costituzionale. Pensiamo al caso, unico al momento, di assistenza al suicidio del giugno scorso che ha riguardato Federico Carboni, detto Mario. Io sono stato il medico che ha dato l’apporto tecnico.

Quello che chiedono i cittadini affetti da gravissime patologie è cessare le loro sofferenze. Come va nel resto del mondo?

I richiedenti la morte medicalmente assistita in Olanda, in Belgio, in Canada, sono affetti, circa il 70%, da tumore. Il paziente affetto da questa grave patologia non è quasi mai tenuto in vita da una funzione vitale. È giunto nel suo iter clinico e terapeutico a una condizione in cui preferisce, invece che vivere tra la sua residua prognosi, accelerarne la morte. Tradotto vuol dire: se ho un tumore al polmone e so che morirò fra sei-otto mesi, preferisco non vivere questo periodo di sofferenza e voglio accelerare il mio decesso. La prognosi ridotta a diciotto mesi è uno dei termini necessari per arrivare al suicidio assistito in Canada. In Italia, secondo la sentenza della Corte Costituzionale, che si è tradotta in un caso clinico, io non posso accedere alla morte medicalmente assistita in quanto manca il requisito di tenuta in vita della funzione vitale. L’unica cosa è attendere lo sviluppo giuridico e giudiziario del caso di Marco Cappato, che ha accompagnato Elena, una donna veneziana, affetta da tumore polmonare, in Svizzera. Vedremo quali saranno gli esiti legati a questa vicenda, che potrebbe aprire la strada per poter accedere al suicidio assistito.

Le questioni legate al fine vita si intrecciano con potenziali interventi legislativi, della Consulta e al dibattito politico. Arriveremo, secondo lei, a delle conclusioni condivise dal legislatore?

Nel 2006, quando Piergiogio Welby chiese che gli venisse interrotta la ventilazione meccanica sembrava impossibile che ciò avvenisse. C’è stato un rapido procedimento giudiziario nei miei confronti, chiuso con il proscioglimento dall’accusa di omicidio del consenziente. Ci sono voluti dodici anni per chiarire giuridicamente e normativamente le questioni sorte con i casi Welby ed Englaro. Nell’opinione pubblica i tempi per una legge sulla morte medicalmente assistita erano già maturi. Dal 2018 abbiamo avuto una certa accelerazione e nel 2022 siamo arrivati al primo suicidio assistito. Adesso rimane il limite del quarto punto della Corte Costituzionale. Da questa legislatura non mi aspetto assolutamente niente. Anzi, temo qualcosa. Potrebbe però arrivare qualcosa di interessante tramite una nuova sentenza. Una pavida classe politica credo che non metterà mano alla materia. Visto l’orientamento dell’attuale maggioranza parlamentare, ritengo possibile uno stallo o un peggioramento per quanto riguarda i diritti individuali.

Quali sono i punti di incontro, a partire dalla sua esperienza professionale, tra medicina e diritto?

La medicina deve dare dei diritti alla persona. Il principio base di come deve essere la medicina lo troviamo nella Costituzione. La nostra Carta Costituzionale afferma che è tutelata la salute “come fondamentale diritto dell’individuo”. È evidente, quindi, che la medicina debba essere orientata a garantire il diritto alla salute. A questo principio base si affianca un altro aspetto. Tutelare la salute della persona, oggi, può voler dire anche permettergli una fine dignitosa. Mi spiego meglio.

Dica pure…

Una fine che il cittadino vuole. Il concetto per cui la morte apparteneva alla sfera unicamente religiosa o filosofica non esiste più. La medicina può aiutare la persona a morire. Io penso che sia un dovere morale del medico portare a morte il paziente, se lo richiede e in presenza di certe condizioni. Questo è il mio orientamento. La stessa medicina conduce il tentativo di salvare il paziente a delle condizioni che il paziente rifiuta. Mentre un tempo si poteva accettare che la morte fosse un evento del tutto naturale, che sopravveniva, su cui il medico non doveva agire, oggi la medicina nel tentativo di migliorare le condizioni del paziente lo conduce a una condizione quasi peggiorativa. Fino a trent’anni anni fa, per esempio, quando si faceva una diagnosi di tumore, si verificava pure una prognosi, indicando il periodo di vita che restava al paziente. Oggi la medicina permette di andare incontro a interventi chirurgici e trattamenti vari. Molto spesso la medicina allunga la vita in condizioni più che accettabili. Ci sono però situazioni in cui la medicina, pur tentando di migliorare certe condizioni, porta a condizioni peggiori.