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di Valentina Petrini

La Stampa, 1 giugno 2023

Tony, Evelyne, Tall: dalle violenze dei trafficanti al riscatto grazie a progetti imprenditoriali. “Siamo partiti di notte da Tangeri. Sulla barca eravamo 45 persone, donne e uomini. Non c’erano bambini. Dopo venti ore di navigazione il mare ha cominciato ad agitarsi, le onde erano sempre più grosse. Il telefono satellitare per chiedere aiuto è caduto in mare. Ci ha salvato la Marina Marocchina”. Tony Lueté ha 41 anni, è originario del Congo Kinshasa, oggi vive e lavora in Marocco, è un venditore ambulante. Siamo a Tangeri, città affacciata sullo stretto di Gibilterra, strategico punto di passaggio tra Africa ed Europa fin dai tempi dei fenici.

“Ho provato ad attraversare il confine più volte. A Tangeri è davvero vicino. La Spagna è a pochi chilometri. Mi dissero che molti tentavano anche a nuoto. Io non avevo il coraggio. Sapevo che rischiavo di morire. Ma ero determinata lo stesso. Così ho tentato più volte, senza mai riuscirci. Ho pagato un trafficante per salire su una barca però mi sono tirata indietro poco prima di salpare. Non so perché, dentro di me qualcosa mi diceva: non farlo. Quella barca è poi naufragata, sono morti tutti. C’erano tanti bambini”. Evelyne Sandrine Sonia Manda è originaria della Repubblica Centrafricana. Il suo sguardo si incupisce quando evoca questi ricordi. Sono passati alcuni anni, ma fanno male ancora. Oggi Evelyne ha fatto della sua passione, la pittura, un lavoro. Ha un atelier, dipinge su tela, su borse, oggetti vari come sassi e tavole di legno e vende ai turisti. Tall Magatte è senegalese. “Anch’io sono un sopravvissuto. Prego e pregherò ogni giorno per questo. Mi hanno abbandonato insieme ad altre sette persone nella foresta. Ci hanno truffato. Sono arrivato a Casablanca in aereo, il trafficante ci aveva detto che avremmo fatto scalo solo trenta minuti. Il tempo passava e alla fine ci ha fatto uscire dall’aeroporto dicendo che ci avrebbe portato in Spagna via terra, in macchina. Siamo arrivati a Tangeri, poi siamo usciti dalla città e una volta nella foresta ci ha abbandonati, facendoci credere che eravamo già in Spagna, nell’enclave di Ceuta. Era tutto falso. Siamo rimasti lì tre giorni senza mangiare né bere. Molti sono morti davanti ai miei occhi. Sono salvo per miracolo”. Tall Magatte prima di partire dal suo Paese ha lavorato giorno e notte per mettere da parte i tremila euro per il trafficante. È una truffa che subiscono molti di coloro che chiedono espressamente di arrivare in Europa in aereo e non a bordo di una barca fatiscente. Evelyne, invece, in tutti i vari tentativi di attraversare la frontiera ha speso quasi sette mila euro. Tony millecinquecento, solo perché dopo quell’unico tentativo fatto in cui è quasi morto, non ci ha mai più voluto riprovare.

Tony, Evelyne, Tall e molti altri non sono però solo migranti che hanno sognato l’Italia. Sono parte di un gruppo che ce l’ha fatta, proprio in Marocco da dove inizialmente volevano solo fuggire. Oggi vivono e lavorano regolarmente. Per alcuni la destinazione finale non era l’Italia ma la Spagna. Fatou Lo è partita dal suo paese di origine in macchina. “Abbiamo viaggiato dal Senegal al Marocco. È stato davvero difficile. Ci sono voluti otto lunghi giorni per arrivare. Non potevamo permetterci di volare, non avevamo alternative”. Fatou Lo ha ventitré anni e due figli. Dovevano tutti imbarcarsi da Tangeri per il nostro continente. Ma una volta arrivati qualcosa cambia i loro piani: suo marito la abbandona insieme ai due bambini. Forse un bene? Chiedo. “Chissà!” sorride. Dormono in strada per qualche giorno, poi la comunità senegalese sul territorio le offre un letto e dei pasti caldi. E lei da quel momento ricomincia tutto da capo. “Oggi sono un’imprenditrice. Mi occupo di vendite online. Sono brava sai? Sto seguendo anche dei corsi di formazione. Studio, ce la faremo”.

A fare la differenza non c’è solo la loro determinazione. C’è anche Soleterre dietro queste storie di riscatto. Soleterre è una Fondazione Onlus che lavora per il riconoscimento e l’applicazione del Diritto alla Salute. Curano piccoli pazienti oncologici in Italia e nel Mondo. Dall’inizio della guerra in Ucraina sono in prima linea nell’assistenza sanitaria e psicologica nei reparti oncologici a Leopoli e Kiev. Ma qui in Marocco, a Tangeri e Rabat, Soleterre fa altro. Da oltre 10 anni con il programma internazionale ‘Work Is Progress’ supportano l’inserimento lavorativo e la ri-attivazione professionale di persone in condizione di precarietà occupazionale, che vengono accompagnate e supportate nel superamento delle diverse fragilità, per consentire loro di accedere ad un lavoro adeguato. Lo fanno in Italia e in Africa, in Marocco e Costa D’Avorio. “Lavoro, stabilità, documenti. Per curare le ferite spesso non bastano i medici - dice Damiano Rizzi, presidente di Soleterre - servono opportunità, una mano tesa, il riconoscimento delle proprie capacità e talenti. La prevenzione, la denuncia e il contrasto delle disuguaglianze e della violenza, qualsiasi sia la causa che la genera, sono parte integrante dell’attività che svolgiamo in Italia e nel mondo: perché salute è giustizia sociale”. Intercettano gli utenti che hanno un progetto valido, ma hanno bisogno di essere formati, attraverso attività di coaching di gruppo e individuale. Forniscono anche assistenza legale ai richiedenti attraverso i loro sportelli sul territorio. Fanno tutto in collaborazione con le realtà locali. E da semplici idee nascono progetti imprenditoriali che donano stabilità ai beneficiari presi in carico.

È in un viaggio tra Rabat e Tangeri proprio con Soleterre che incontriamo molti dei migranti entrati a far parte del progetto Work Is Progress. Donne e uomini provenienti da Paesi diversi dell’Africa che oggi vivono stabilmente e regolarmente nelle città marocchine. Un punto di vista diverso sull’Africa e anche sul Marocco, che non cancella certamente le atrocità che si consumano ogni giorno nell’enclave di Ceuta da entrambe le polizie di frontiera e tantomeno le storie dei migranti abbandonati nella foresta a sud di Tangeri non solo dai trafficanti ma anche dalle autorità locali. Un viaggio però che aiuta a capire una cosa importante: quanto possa fare la differenza in un progetto migratorio incontrare sul tuo cammino qualcuno che ti prenda in carico seriamente, ti offra formazione e ti dia una mano a trovare un lavoro. Vanne Cliff Nkoy, ha 33 anni, è originario di Brazzaville, Congo. È un imprenditore, ha fondato la sua attività qui in Marocco nel 2017. La sua azienda è ormai presente in diversi paesi dell’Africa, tra cui Guinea Conakry e Congo Brazzaville. “Lavoro anche come consulente per diverse Strutture di cooperazione internazionale e ONG. Il mio ruolo è quello di accompagnare gli imprenditori durante il processo di incubazione dei progetti e mantenere le relazioni con piccole, medie e grandi imprese”. Quando nel 2005 ha lasciato il suo Paese d’origine per studiare in Marocco anche lui sognava l’Europa: “Di più il Canada in verità”. I primi tempi in Marocco era in ansia, non si trovava bene: “perché avevo dei pregiudizi, paura delle aggressioni, delle rapine. La vita non è facile. Il razzismo esiste esattamente come da voi. Ma poi - racconta - le opportunità che ho scoperto in questo paese hanno cambiato i miei piani”. Certo, anche lui non ce l’avrebbe fatta da solo. Anche Vanne Cliff Nkoy ha una storia di truffa alle spalle. Nel 2008 torna in Congo, vuole arrivare in Canada. Si mette nelle mani di truffatori che gli rubano ogni suo risparmio in cambio di promesse false. “Ero a pezzi. Anni di lavoro buttati. Ma ho deciso di rialzarmi. Sono tornato in Marocco e ho sviluppato qui il mio progetto imprenditoriale”.

Sophrette Mbuyamba, ha 30 anni, anche lei è originaria della Repubblica Democratica del Congo, viene da Kinshasa. Si diploma, ottiene una borsa di studio e vola in Marocco. Qui conosce Soleterre, viene selezionata per uno stage e magicamente la sua vita cambia. Non tornerà più indietro e non guarda nemmeno oltre. Marie Françoise Sagne viene dal Senegal. Nel 2010 decide di lasciare il suo paese dopo un divorzio che le cambia la vita. Marie non vuole spiegare perché, evocare quell’uomo, quel matrimonio, le provoca ancora dolore. Non insisto. “Ho lavorato molto come cameriera nei ristoranti, ma il mio sogno è diventare imprenditrice, aprire una piccola attività nel settore del commercio. Serve studiare, però, e per studiare servono soldi. La formazione è un passo fondamentale verso l’affermazione”. È esattamente quello su cui vale la pena investire, forse. Un monito all’Europa che elargisce soldi alle polizie di mezza Africa per il contrasto all’immigrazione, anche a regimi violenti come la Libia, che violano sistematicamente ogni diritto. Chissà che effetti avremmo sul fenomeno della migrazione, se questi soldi invece di essere destinati ai Ministeri dell’Interno (che nemmeno fermano le partenze), andassero in politiche serie e tracciabili per favorire studio, formazione, sanità e accesso al lavoro. Annique, ha 42 anni, viene dalla Costa d’Avorio ed è a Rabat da soli otto mesi. Anche lei nel suo passato ha un uomo violento. “Mi hanno costretto a sposarmi con la forza con un uomo anziano di più di 80 anni. La mia vita era estremamente dolorosa, mi picchiava quasi tutti i giorni. Ero solo un oggetto. Non avevo alcun diritto. In questo clima di tortura ho dato alla luce tre figli”. Annique è scappata e li ha lasciati a casa. Lo racconta a bassa voce, quasi a temere il giudizio altrui per questa scelta fatta. “Le cose peggioravano ogni giorno, non ce la facevo più, era un incubo. Prima o poi mi avrebbe uccisa”. Non ha documenti, è a tutti gli effetti illegale anche in Marocco. Un beneficiario del progetto ‘Work Is Progress’ che è riuscito ad aprire dei negozi di abbigliamento l’ha accolta e le ha dato un lavoro. Ora la speranza per il futuro è di poter anche lei seguire un corso di formazione, specializzarsi e ottenere i documenti. “Solo così potrò tentare di riprendermi i miei figli e portarli qui con me”. Non c’è retorica nei racconti trovati sul campo: nessuno ha consigli da dare a chi è in procinto di partire con in mente la destinazione Italia, Spagna, Europa. “Io conoscevo i rischi che correvo affrontando la traversata del mare - mi risponde Tall quando gli chiedo di rivolgersi alle migliaia di donne e uomini in partenza dal continente africano verso casa nostra - Non posso dire nulla ai miei fratelli nella mia stessa situazione. Chi ha fame deve cercare da mangiare. Certo, dico, fate attenzione, il mare è cattivo, puntare all’Europa può significare perdere la vita. Ma i nostri governi non concedono diritti e non attuano politiche di sostegno all’occupazione giovanile. Non ci lasciano molta scelta”.