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di Giacomo Puletti

Il Dubbio, 29 luglio 2023

“Perviene da Mattarella un monito contro l’uso improprio degli strumenti costituzionali”, spiega Michele Ainis al Dubbio.

Professor Ainis, dove volevano arrivare le parole del presidente Mattarella sulle commissioni d’inchiesta?

Direi innanzitutto che perviene da Mattarella un monito contro l’uso improprio degli strumenti costituzionali. In questo caso le commissioni d’inchiesta, che sono ovviamente consentite, perché l’articolo 82 della Costituzione le disciplina, ma sono altresì uno strumento eccezionale, dal momento che derogano al principio della separazione dei poteri in quanto la commissione d’inchiesta ha gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria. E le eccezioni non possono diventare regola.

Da quella sul Covid a quella su Emanuela Orlandi, crede che stiano diventando una regola?

Nei primi dieci anni di vita repubblicana, dal 1948 al 1958, vennero istituite soltanto tre commissioni d’inchiesta. Non ho i dati dell’ultima legislatura ma sono sicuro che per quanto riguarda quella conclusa nel 2018 venero battezzate 16 commissioni d’inchiesta. Il malcostume continua perché quella sul Covid non è certo l’unica. Ce ne sono altre già istituite e altre ancora in cantiere. Quindi leggerei nelle parole di Mattarella un altolà rispetto all’uso eccessivo di uno strumento che dovrebbe essere eccezionale, ma anche un altolà rispetto al merito, ai contenuti delle commissioni d’inchiesta.

Cioè?

Le commissioni possono essere di due tipi. Ci sono quelle legislative e quelle politiche. Le prime servono ad acquisire elementi di conoscenza per legiferare, e ci sono vari precedenti come quella sulla povertà nel mezzogiorno o quella sulla giungla retributiva. Quelle politiche invece servono ad accertare la responsabilità di funzionari ed esponenti di governo in relazione a situazioni di pubblico interesse, come il caso tipico di quella sulla P2. Quando invece diventa una sorta di inchiesta al quadrato, cioè un’inchiesta parlamentare sull’inchiesta giudiziaria, come nel caso del Covid, assistiamo certamente a una stortura costituzionale.

In un recente articolo lei ha scritto che Mattarella usa spesso il linguaggio dei gesti, ma questa volta si è fatto sentire forte e chiaro: crede che uno degli obiettivi sia anche la riforma Nordio?

Nell’articolo pubblicato su Repubblica ricordavo che la riforma Nordio è un disegno di legge, per cui deve essere autorizzati dal capo dello Stato. Questo potere è in realtà disarmato, perché ove arrivasse il semaforo rosso del Colle su un ddl del governo, lo stesso avrebbe gioco facile a far presentare il medesimo testo da qualsiasi parlamentare di maggioranza e così facendo verrebbe scavalcato il diniego del Quirinale. Rispetto al ddl Nordio Mattarella si è preso 35 giorni di tempo per analizzarlo e per quanto mi risulta è un fatto senza precedenti che esprime perlomeno delle perplessità, manifestate anche dall’Anm, dall’Anac e dall’Ue.

Pensa che si riferiscano in particolare all’abrogazione dell’abuso d’ufficio?

Non credo che queste perplessità si leghino a un intervento in sé sull’abuso d’ufficio quanto a questo specifico intervento, che di fatto lo cancella. Perché un conto è cancellarlo, un conto è modificarlo obbedendo al principio di tassatività richiamato dalla Costituzione. Legherei le parole di Mattarella ieri sulle commissioni d’inchiesta al ritardo con cui ha autorizzato il ddl Nordio. Ci leggo un messaggio di attenzione nei confronti del potere esecutivo e legislativo, da un lato di necessarie modifiche al testo, dall’altro di rispetto delle norme costituzionali.

Come crede che reagiranno governo e maggioranza di fronte a tutto ciò?

In questi primi mesi di esperienza del governo vedo annunci roboanti e poi dei passaggi al rallentatore. Basti pensare al presidenzialismo, che si doveva fare entro luglio. Stessa cosa per la riforma del’Autonomia differenziata, con mille dichiarazioni ma un cammino parlamentare sottotraccia. E anche sull’abuso d’uffici credo ci sia stata una frenata da parte della presidente del Consiglio. Per non parlare del resto della riforma, come la separazione delle carriere o altro. Mi sembra ci sia una linea urlata nelle parole ma prudente nei fatti.

Tornando al discorso del capo dello Stato, Mattarella ha detto che non sono le camere a giudicare se norme di legge che il Parlamento ha approvato sono conformi alla Costituzione perché il compito è affidato alla Corte costituzionale. È d’accordo?

In questo specifico passaggio non mi trovo del tutto in sintonia con il capo dello Stato. Perché in realtà i filtri di legittimità costituzionale nel nostro ordinamento sono plurimi. In Parlamento c’è una commissione Affari costituzionali che dà un parere sulla legittimità, per esempio quando c’è un decreto legge da convertire. Possiamo dire che non funziona o non è efficace il filtro di legittimità costituzionale affidato a un organo politico, visto che poi la maggioranza difende sempre l’operato del governo, eppure esiste. Del resto, anche lo stesso presidente della Repubblica può rifiutare un decreto legge, come fece Napolitano sul caso di Eluana Englaro, o può rinviare un ddl alle Camere. Il Colle insomma ha un proprio ruolo, potremmo dire più di sindacabilità costituzionale che di legittimità, ma comunque ce l’ha.

Un altro tema di cui si parla molto è l’abuso dei decreti legge, sul quale il capo dello Stato ha spesso richiamato l’esecutivo: in che modo si può ovviare al problema?

In questo caso il presidente della Repubblica si trova tra due fuochi. I decreti legge spesso contengono norme urgente insieme ad altre norme non urgenti. E così il capo dello Stato promulga con riserva, cioè con una lettera in cui lamenta la diversità di argomenti. Ma comunque promulga, perché altrimenti gli interventi urgenti, che spesso sono misure finanziarie, verrebbero rimandati. Bisognerebbe riflettere sulla possibilità di una promulgazione parziale della legge di conversione, ma siamo nel campo della fantasia costituzionale.

Qual era dunque l’obiettivo del capo dello Stato nel suo discorso?

Il senso complessivo dell’intervento di Mattarella è che ciascuno deve fare il proprio mestiere. Oggi invece spesso accade che il governo legifera al posto del Parlamento, il quale vuol fare il giudice al posto della magistratura, la quale a sua volta legifera al posto del Parlamento. Il sistema, insomma, è in affanno. E in questo senso il richiamo del presidente della Repubblica è più che condivisibile.